TESTI CRITICI
(dal libro “Il Cristo di tutti” - 1988)
Sono nato in una terra - la Liguria - che venera il Cristo e dove ogni paese gareggia con gli altri nel venerare il Cristo con statue che vengono portate in processione: statue che intendono esaltare la fatica, la miseria e il dolore con la ricchezza degli ornamenti, delle corone d'argento che però non significa affatto oblio, tradimento o - peggio - deviazione. È un modo per dire che si dedica a quelle immagini benedicenti del riscatto umano tutto ciò che è stato raccolto nell'ambito di una vita di stenti e di fatica di una vita passata sul mare. È una delle tante interpretazioni dirette che si danno della figura del Cristo: qualcosa che sta fra il sangue dirotto delle statue spagnole e il terrore di quelle russe. Ora Mario Lupo si inserisce in questa storia secolare e lo fa nel suo modo più congeniale e più vero, fuori degli schemi, delle suggestioni e delle facili offerte di ripetizione. Intanto lo mette nel cuore stesso della sua vita, lo pone, sì, sulla terra ma è una terra che confina con il mare, meglio con l'infinito e poi lo lega all’immagine della madre eterna e a quella dei gabbiani che hanno la doppia funzione di testimoni del mistero e di predicatori della verità. Don Italo Mancini ha compreso molto il valore di questi simboli, di queste immagini che sono alla base della concezione del Cristo di Lupo. Una volta risolto il problema della sistemazione, Lupo affronta direttamente la figura del Cristo sulla croce e anche qui procede con un doppio regime che però ha un solo scopo, quello di avvicinarci questo Cristo, tutt'altro che solenne, tutt'altro che espressione della divinità violata e offesa. Nessun rapporto con l'idea del Cristo solenne nella sua disperazione, nessun rapporto con un giuoco di possibile sostituzione, cioè dell'occupare un posto unico con le nostre memorie. Gli è così riuscito di trovare un territorio del tutto nuovo e di darci un Cristo che, pur conservando la sua unicità, assomiglia soprattutto all'uomo quotidiano, al povero, all'abbandonato. Direi che proprio in questa direzione va molto più in là di quanti lo hanno cantato o pregato per la forza della sua umanità diretta: Lupo prende i suoi Cristi per la strada, nelle strade più lontane, meno battute e spesso ne fa dei poveri esseri che soltanto la presenza della madre restituisce alla loro umanità perduta, così come la presenza del gabbiano gli rende gli onori e la partecipazione del cielo. Come si vede, si tratta di una ricerca del tutto inedita e nuova. Un po' come se un ligure potesse dimenticare di colpo quelle processioni di Cristi sontuosi e si trovasse di colpo in un mondo elementare, così diminuito. Se prima trovava sollievo nella visione, nel semplice sguardo, ora viene chiamato da Lupo a una diversa meditazione di quel mistero: un mistero ridotto al minimo assoluto, dove la stessa tragedia perde il lato evidente e maestoso della sua gloria e diventa pronuncia quotidiana, affidamento al puro e semplice respiro della verità. Se si segue questa serie di Cristi del Lupo ci si accorge che ha dovuto faticare per arrivare a delle immagini probabili e accettabili, ha dovuto, cioè, passare prima per l'umile quotidiano che stava sotto i suoi occhi. I suoi Cristi sono uomini in fuga, poveri quasi privi di vesti, con i segni delle lunghe sofferenze e delle più lunghe attese. Lupo ha lavorato per contrari, si è mosso sempre in salita e nella sua ideale via crucis ha continuato a ridurre quell'Uomo, quel Dio non più dato e offerto ai nostri occhi. Così come le sue donne - anche qui Mancini ha visto bene - sono sempre a contatto con la terra, avvolte nella terra, allo stesso modo i suoi Cristi - stiano sulla croce o ne siano stati deposti - son legati al mondo attraverso il simbolo maggiore della Creazione. Ma anche qui si tratta di una Creazione ridotta al minimo, all'essenziale e a ben guardare il panorama è fatto di sterpi, di gabbiani morti, un panorama, cioè, di morte assoluta. Qui sta la parte più alta della sua rappresentazione, delle sue invenzioni e delle sue immagini cristiane: in effetti il suo Cristo non è che il «povero cristiano», così come viene inteso dai contadini di Abruzzo (o come lo intendevano). Stupenda riduzione al minimo, al più piccolo respiro che viene lasciato all'uomo colpito e offeso: Mario Lupo ha fissato per sempre la voce della sua religione, illuminando il segno assoluto della sua fede.
(Mostra al Palazzetto dell’Arte di Foggia “MEMORIE DAUNE” - 1988)
[…] La carica di umanità che è nelle sue opere gli dà con i fruitori un rapporto diretto, immediato. Un dipinto di Lupo arriva subito all'intelligenza e al cuore, non ha bisogno di elaborazioni sofisticate, di interpretazioni dotte.
Lo studio dell'artista, a Grottammare, è ricavato da un teatrino del '700 e sembra la tolda di una nave.
Consente all'uomo e all'artista di coltivare il suo rapporto col mare, che è un rapporto di vita: “Ho sognato fin da ragazzo di navigare, sono diplomato capitano marittimo, ho avuto esperienze sia su navi mercantili che militari. Non pensavo che avrei fatto il pittore dopo essere arrivato a comandare un guardacoste. Eppure le esperienze di vita hanno influenzato le mie scelte in modo decisivo: se ho fatto a San Benedetto il monumento al Gabbiano Jonathan Livingston è perchè questo animale è stato il silenzioso compagno di tanti viaggi”.
- Un simbolo di libertà ...
“Certo, il simbolo di quella libertà che ognuno sente dentro. C'è anche uno strano gioco di parole: gabbia-no. Questo animale non vive in cattività. Cardarelli ha scritto versi bellissimi: Non so ove i gabbiani abbiano il nido, nè ove trovino pace ... Quel compagno di lunghe ore di navigazione è oggi sulle mie tele: un rapporto che continua”.
- Un altro dei soggetti preferiti è quello delle donne vestite di nero; disfatte e gonfie per un'atavica povertà. Donne in attesa, con un mazzolino di fiori o chine a pensare. Donne di sapore verghiano che attendono una barca scrutando il filo dell’orizzonte.
“Attendono i loro uomini. Sono radicate lì, diventano emblematiche dell'incertezza e della speranza. La presenza umana nei miei quadri è fondamentale. Colloco popolane nei mercati, nelle rivendite di fiori e di ortaggi delle grandi città, persino sulle bancarelle che fronteggiano una severa cattedrale gotica, quella di Norimberga. In loro può esservi malinconia, talvolta un sospetto di dramma, mai tragedia”.
- Come si pone Lupo di fronte alla tavolozza?
“Vivo emozioni istantanee che fisso nel ricordo e a distanza di tempo le trasferisco sulla tela. In me non c'è nulla di preordinato. Fonte principale di queste grandi ispirazioni è stato ed è tuttora il territorio dauno, a cui dedico l'attuale mostra”.
- Che idea ha del sentimento della malinconia?
“Un'esperienza triste può arricchire e la malinconia è sentimento aristocratico, raffinato. La sofferenza crea uno spessore: al Prado di Madrid, Goya mi ha catturato per ore”.
- Ci sono le ore dell'ispirazione nella sua giornata oppure ogni momento è buono?
“A volte mi chiudo nello studio di Grottammare, ci sto per giorni interi. Lì c'è un disordine evocativo che mi fa ritrovare me stesso come nessun altro posto”.
- Gabbiani, mare, donne vestite di nero, fiori, melagrane sono i suoi soggetti preferiti. Ci saranno, un giorno, motivi nuovi?
“Può darsi, se scocca la scintilla. Il trinomio è realtà, natura, invenzione, tutto si snoda per questo percorso. L'invenzione è trattare un soggetto come nessuno ha già fatto: la scintilla può consentirti questa straordinaria operazione”.
(dal catalogo Mario Lupo - 1975)
La pittura, per Mario Lupo, esiste in primo luogo come espressione del sentimento del vivere: remote da lui (da questo artista marchigiano approdato all'esercizio del dipingere quasi a consolazione e a memoria d'una lunga giovinezza marinara) le problematiche estetizzanti, le alchimie intellettualistiche, le cabale di una cultura che, non avendo altro nutrimento, ormai divora se stessa. Per Lupo il sentimento del vivere, e dunque la ragione prima del suo impegno pittorico, nascono e si privilegiano nell'empito emozionale - ma è emozione che si fa spirito, che diventa anima di tutte le cose - scaturente dalla contemplazione e, più, dalla partecipazione all’esperienza del mare.
Navigare necesse: nell'antico motto latino - che nessuna retorica politica, nessun dannunzianesimo d'accatto potranno mai distorcere - è l'alto momento drammatico che sta alla radice dell'intera produzione artistica di Lupo. È il punto che lo apparenta ai grandi artisti, ai grandi poeti di ispirazione marina: da Constable a Géricault a Viani, da Baudelaire a Mallarmée a Verga a Conrad. La necessità esistenziale del mare, anche a costo della morte, è presente in ogni pennellata del nostro artista: pur quando il quadro raffigura un paesaggio di collina o magari uno di quei patetici mercatini dalmati (che di recente lo hanno visivamente emozionato in modo così felice); pur quando le donne aggobbite dal vento dell'Adriatico danno tregua nel sonno alla perenne attesa dei loro uomini in lotta con la tempesta; pur quando nel cielo antelucano si dissolvono i tragici fantasmi dei pescatori che la burrasca ha strappato alla vita; pur quando i gabbiani sembrano infine aver trovato pace nei loro nidi segreti.
È evidente che questa tematica, così profondamente sentita e sofferta in ogni suo aspetto, in ogni suo dettaglio, non altra via poteva avere alla propria definizione pittorica se non quella di una figuralità che esaltasse e sublimasse il dato meramente naturalistico in timbri cromatici e strutture compositive di quell'avanzatissima linea romantica che con ampia latitudine d'indicazione critica vien detta espressionista.
In realtà l'appartenenza all'area espressionista di Mario Lupo non è viziata da conformismi di alcun genere. La sua, del resto non esternamente deliberata, adesione, non è affatto clamorosa; e d'altronde l'intensità, la potenza del suo assunto poetico non abbisognano certo di forzature formali: a differenza degli espressionisti nordici, da Munch a Nolde a Kirchner a Pechstein, che focalizzavano la loro attenzione creativa sugli spasimi di una particolare società in agonia - ed erano quindi portati a dilacerare e sconvolgere la struttura delle immagini, a esasperare sino al parossismo il giuoco luministico - Mario Lupo trova materia operativa in un dramma universale, antico quanto il mondo. Le tensioni compositive, le violenze cromatiche, nella pittura di Lupo, sono sempre estremamente contenute: sempre pienamente «plausibili» in una dimensione espressiva diretta, non sono mai fastidiose, irritanti, inutilmente provocatorie di là dalla stessa realtà. C'è, insomma, nella misura espressionista di questo pittore una sorta di «pietà estetica» (mi si passi l'apparente incongruenza del termine) che lo riconduce ai modi di una classicità mediterranea, turbata quanto si vuole, ma pur sempre, al limite ultimo, consolante ed aperta alla speranza.
A verifica si vedano le improvvise accensioni coloristiche, le inopinate intuizioni della luce, certe dolcezze grafiche, che intervengono nel tessuto aspro e sombre dei suoi dipinti: quasi emblemi di una fiducia nella grazia dell'arte, nella forza taumaturgica della poesia che gratificano l'uomo ed il suo operare anche nelle più buie stagioni e nei più tragici momenti della sua civiltà e della sua condizione.
(dal catalogo per la mostra al Musée de l’Athénée di Ginevra - 1980)
La realtà può essere copiata, interpretata, inventata. Sappiamo che il valore estetico sta tutto nell’alterazione del dato reale, ma ciò può avvenire anche usando tutti e tre i modi indicati, anche perché non può esistere per un artista l’atto tutto passivo del copiare o quello puramente razionale dell’interpretare o quello tutto astorico dell’inventare. Sull’atto del percepire e dell’intuire giocano fattori primari e lontani, si riflettono concezioni ed esperienze di vita, si uniscono emozioni e razionalità, per cui nel momento creativo si fondono, in senso intersperienziale, la capacità del guardare, la felicità del capire e la suggestione dell’inventare.
A tutto questo pensavo leggendo le tele di Mario Lupo. Esse sono “vere” e “non vere”. Mi richiamano a precisi riferimenti visivi, ma l’autore li filtra attraverso il suo giudizio e le sue scelte; mi porge visioni, ma me le innalza a livello di fantasia. Forse è stata l’idea del mare, a cui tutta la critica si è rifatta, a spingere verso un giudizio riduttivo e deviante, a indurci, cioè, a cogliere e a lodare gli aspetti più esteriori del suo operare. Perché se è chiaro che il suo mondo è quello del mare, della sua gente oscura e sublime per intensità di sentimenti e predisposizione alle attese silenziose, è anche vero che questi cupi silenzi dell’uomo di mare sono motivi solo apparentemente centrali nel vasto contesto della sua produzione: in realtà le donne bloccate in primo piano o che smarriscono i volti nell’ombra dei grembi o quelle chine e gravate da pesi enormi che vanno oltre la vecchiaia e l’assenza, tutte tradiscono l’attesa di qualcosa di più solenne e di più disperato (di cui l’uomo e lo sposo o il figlio sono solo un aspetto causale e scatenante); direi che tradiscono attese ancestrali di una “fine” inevitabile, di quella quotidiana ed esistenziale perdita di facoltà, che coincide, al limite, con la fine dell’esistenza, la clamorosa rottura col mondo, con gli affetti, gli amori, la terra, e anche con il mare. Intendo dire che in quello sgomento dei gruppi femminili, aspri per materia e colori, si raggrumano per Lupo - anche inconsciamente talvolta - ben altre attese e delusioni e perdite. Se il dolore è carenza delle cose amate – l’uomo che non torna dal mare - figuriamoci quale dimensione assume la carenza delle certezze del vivere, cioè la catastrofica coscienza del perire inesorabile delle cose, delle forme, degli amori, delle visioni terrene.
Questo tipo di lettura dell’opera di Lupo mi pare essenziale per capire le sue motivazioni e la genesi del suo dipingere. È in questa chiave che si spiegano i controcanti di talune scene infantili o di certe tenerissime attese ai balconi di fanciulle fiorite da grandi occhi aperti su probabili eventi di felicità: la loro stupefatta speranza di gioia è il contraltare della penosa esistenza delle nere donne. Sono i due poli di una tensione che l’artista rivive di continuo, ne fa motivo di perenne ansia e la ritrasferisce proprio nelle dolorose attese parziali come nelle parziali gioie dei suoi personaggi (si pensi alle sequenze che si succedono nel grande affresco “Corale attesa” e alla dialettica contrapposizione tra i due miti della speranza giovanile e della matura pensosità: la gioia dei piccoli è autentica come autentica appare nei grandi lo spavento del futuro).
Nel rispetto di questa problematica credo che riacquistino un senso tutte le particolari analisi e i giudizi relativi alla tecnica e alla poetica del Lupo. Le apparenti contraddizioni e gli scotti pagati a certe iterazioni illustrative sono superate e salvate dalla verginità dell’ispirazione e dalla verità motivazionale. I volumi e le luci obbediscono alla sua favola. Le forme ingobbite si fanno stravolte in funzione di qualcosa che “deve” accadere, il dolore è nell’aria e lo si avverte come il battere d’ala dei gabbiani. Il colore appare crudo e scabro, con la materia biancastra a fior di tela. L’impaginatura di una spiaggia o di una folla è in funzione della loro “durata”: cioè, è il tempo che si blocca sulle cose, simili a una presenza antica, alla storia di tutta una terra che seguita a vibrare per sempre dentro le immagini. I corpi si risolvono plasticamente in questa atmosfera, con le proprie linee nere e i grumi forti per renderli solennemente prostrati. Lupo non poteva ricorrere a cerebralismi di moda per descrivere la semplicità di una sofferenza avvertita come un dato di natura, vissuta da tutti, eroi e vittime. Nel contingente silenzio di queste donne vibrano i risvolti di antiche macerazioni, perché l’uomo e il mare non sono elementi in lotta da ora, sono in lotta dall’eternità: al di qua del lutto, e prima del lutto personale, c’erano forse la speranza o l’aspirazione, ma esse furono mortificate dalla certezza del male, dalla fatalità del destino sempre vincente sui progetti dell’uomo.
Pervenuto - attraverso la sua storia umana - a questa sofferta coscienza del vivere, Lupo non può non riproporre di continuo la sua verità, fuggendo dall’impressionismo di maniera e caricando di affetto e orgoglio e pena i testimoni delle sue convinzioni. Per far questo egli si deve porre “dentro” i dipinti, coinvolgendosi nel comune sbigottimento, rimanendo anch’egli sulla terra - con le donne, col loro dolore - opposto polemicamente al mare, preso nel dialettico confronto che l’uomo vive con se stesso, con le sue difficoltà esistenziali, di cui il mare è solo un pretesto provvisorio. Sul mare l’uomo naviga, nomade come lo è sulla terra per fatiche e incertezze, corroso dal salino degli anni e dai venti delle delusioni. I ritmi compositivi risentono di questi sussulti emozionali: le forti mani delle donne adusate al rammaglio delle reti occupano sulle tele spazi imprevisti, ma non contraddicono l’ingenuità dolente delle fanciulle stagliate finemente nell’aria e prèsaghe dei destini che le attendono al di là delle bambole o del mazzetto di fiori. La composizione obbedisce a questo campionario di pretesti lirici o di accantonate illusioni: i corpi fanno ressa per difendersi in gruppo, talvolta con qualche eccessivo graziosismo sui volti delle giovani, ma l’insieme ha cadenze lucide, sobrie, razionali.
Il disegno ha qui un suo ruolo preciso. Le variazioni dei segni grafici fanno respirare meglio i corpi, li immergono in quella lontana linea terra-mare che scandisce su ogni tela il gioco solenne dell’avventura umana sempre dibattuta tra dubbi, alterne speranze, realtà di ora e ipotesi di futuro, cielo e terra. Il pittore non è spettatore ma partecipe di questo tempo martoriato. E lo fa con la semplicità di un primitivo (come Viani bloccava le sue donne di pietra), anche se fiori e ringhiere e gabbiani tradiscono un romanticismo di fondo da cui Lupo deve guardarsi con attenzione. E quando non lo tenta il bel disegno, egli sa rendere davvero grigia la folla del suo “mercato” o essenziale l’erba bassa rosa dal salmastro, su cui i corpi si piegano in rotondità per esaltare le rette lontane o riecheggiare antiche posizioni di preghiera: quelle spalle curvate segnano il declinare della vita, le reti un pretesto di raccoglimento formale. Il rosso o l’azzurro si accendono allora come segnali di richiamo perché l’occhio si volga a queste storie d’anima, a queste vicende del cuore dalla cromia asprigna e inconsueta. Pare che Lupo ci racconti che egli “era del mestiere” (del mare o del soffrire?), che si è formato nel tentativo di vincere i marosi, e che ora le storie urgono dentro come allora il libeccio, fino a suggerire al nostro smagato pessimismo uno spiraglio di luce, un certo impasto costruttivo: tutte occasioni minute per tessere l’elegia di un discorso più grande che investe tutto il nostro esistere. Il mare, allora, si fa elemento di un tutto che ci sovrasta, è l’occasione per la lamentosa melopea sull’immane fatica del vivere: Lupo non lo guarda più il mare, l’ha dentro come una colpa o un amore o una via di salvezza. Non è un motivo di riflessione intellettiva, ma l’elemento giusto per quasi maledire la storia, inserirsi nel quotidiano e gustarne il travaglio. Se il ricordo di Verga ha spinto qualcuno a fare accostamenti letterari, si rifletta che qui la “provvidenza” pare solo supposta ma non seriamente creduta e la rassegnazione - se di essa si può parlare - contiene qui tutte le nascoste vibrazioni della protesta che ci provengono (o coincidono) da una cultura recente e arroventata. Insomma non sono spente tutte le speranze per un “progetto” di vita che sia diverso. È proprio andando a fondo nelle contraddizioni che esse possono parzialmente placarsi. L’avercele già presentate in simboli e in colori è già un piccolo miracolo dell’uomo proteso a superarle.
(dalla rivista “Riviera delle Palme” - 1997)
La vicenda umana ed artistica di Mario Lupo è indissolubilmente legata alla storia delle arti figurative a S. Benedetto e nel suo comprensorio negli ultimi trent’anni, in particolare dal 1966 fino agli anni “settanta” e “ottanta”, periodo in cui la sua influenza è stata determinante per il risorgere di una cultura figurativa e non soltanto. Mario Lupo (Giulianova 1926) giunge a S. Benedetto da Ancona 31 anni or sono, nel 1966, appunto; e già nel luglio dello stesso anno inaugura la prima personale nella città, in quella che chiamerà la “Sala d’arte Guglielmi” in onore del proprietario che gli aveva affidato i locali. È un periodo nel quale languono le intraprese culturali pur non mancando un’iniziativa lodevolissima come la “Biennale d’arte contemporanea”, avviata nel 1955, ma che ormai era alle ultime battute; si estinguerà, infatti, nel 1969. Lupo getta il sasso nello stagno, desta la comunità dal suo profondo torpore culturale aprendo una galleria stabile, che diverrà non solo una sede per mostre importanti, ma anche un punto di ritrovo e di riferimento per appassionati d’arte, artisti e gente comune. “Ci vediamo da Lupo”, era come un saluto, un arrivederci che supponeva, comunque, un piacevole momento, un incontro interessante con la pittura o con un personaggio delle arti figurative, un luogo dove l'esperienza estetica veniva ogni giorno sviscerata, confrontata, affinata. È come una scarica che risveglia un desiderio, che solleva dall'oblio un’aspirazione che la comunità possedeva ma che attendeva di essere stimolata. E la pittura di Lupo, intimamente legata alla storia e alle tradizioni di una civiltà marinara, diventa il tramite più adatto per generare questa rinascita. Sorge un amore, tra il pittore e la città, destinato a durare a lungo. “Poi c’è stato l’approdo a S. Benedetto, davvero un approdo benedetto” - scrive Lupo - ( ... ) “la gente ha visto in me un pittore sincero e un animatore per l’arte ( ... ) S. Benedetto mi ha arricchito il cuore e mi ha fatto capire meglio il mare”. Non c’è dubbio, egli riesce a trasmettere il suo lessico figurativo alla gente, che lo comprende e accoglie nelle case perché immagini e contenuti ci coinvolgono, riscoprono in maniera singolare le nostre radici, la nostra storia, ma anche aspetti della quotidianità talora sopiti e, soprattutto, inconsapevolmente, ci emozionano.
Questo è il principale motivo del suo successo. Non c’è casa nella città che non abbia, almeno, un’opera di Lupo. Allestisce mostre individuali e collettive di artisti affermati e di indiscussi maestri, ma anche di sconosciuti talenti, spingendo gli artisti locali al confronto, e la gente alla comparazione e ad una scelta più consapevole.
Tra le mostre di grande rilievo, tanto per citarne alcune, quella di “Acquarelli inglesi e francesi dell’800”, delle acqueforti di Piacesi, Bartolini, Carrà e Ligabue, dei dipinti di Tamburi e Casorati, collettive di grandi maestri contemporanei, ma pure, tra le altre, la personale di un giovanissimo Andrea Pazienza. Una rivoluzione che lascia il segno; anche sotto questo profilo Lupo è stato un protagonista.
La recente, eccezionale rassegna retrospettiva del pittore, svoltasi contemporaneamente in quattro sedi, la “Palazzina azzurra” e l’ex GIL a S.Benedetto, la galleria stamperia dell’ Arancio a Grottammare e la galleria “La Mimosa” in Ascoli Piceno, frutto di una proficua collaborazione tra Nazzareno Verdesi e Mario Lupo, ha fatto conoscere l'intenso itinerario artistico del pittore sambenedettese, dagli esordi fino all’ultimo periodo. Per tutto il decennio degli anni “cinquanta” e per i primissimi anni “sessanta”, Lupo si rivolge alla storia dell’arte per attingere quei suggerimenti che gli consentono di trovare la sua strada.
È animato da una forte volontà, il suo desiderio di apprendere lo porta a sondare le strade del chiarismo marchigiano, si accosta ai pittori Rossini e Fanesi, ed è quest’ultimo che lo aiuta a rendersi autonomo. I suoi modi variano studiando Cezanne e De Stael, Morandi, Carrà e Semeghini, mentre le opere di Francisco Goya e Lorenzo Viani risvegliano in lui l’interesse per l'uomo. Ma non basta. Guarda, osserva, dipinge e apprende con prontezza; le sue donne sono ormai in dirittura d’arrivo, potrebbero avere le radici nelle contadine dei “primitivi”, oppure nelle opere di Pieter Bruegel il Vecchio, di Gauguin, ma anche nel “vigoroso plasticismo” e nel simbolismo di J. Francois Millet.
Egli, però, macera tutto nel suo intimo, sente che le esperienze devono essere ricondotte ad una propria e più sentita verità, certamente più legata ai ricordi personali. La svolta romantico-simbolista, pur con una matrice protoespressionista, si ha quando giunge a S. Benedetto, centro marinaro ancora legato alla propria storia e al folklore, che gli risveglia le memorie e le visioni della sua vita di mare.
Non è soltanto l’accoglienza calda e generosa della città, ma è anche l’ispirazione inesausta e travolgente, quella che già aveva colpito come un fulmine Chatelain e Tavernier, De Carolis e Landi, è la luce, è la gente, è la temperie intrisa di strofa marinara, tutti umori densi e pregnanti che egli percepisce. Lupo da pittore delle intimità liriche quale era, si trasforma, anche in pittore delle atmosfere e delle emozioni. Le metafore i simbolismi, i profondi trasalimenti neoromantici sono mediati da una personalità singolare ed emancipata per approdare ai modi originali di un “espressionismo adriatico”. Ne sono la tesi le singolari donne che attendono, indubbiamente connesse con la sua venuta a S. Benedetto, città dove egli matura pienamente il suo stile, il suo codice interiore, la sua poetica, in una evoluzione che ha i caratteri dell’unicità.
Appaiono i primi gruppi ipostatici delle “donne in attesa” nelle tipiche gestualità come in “Mare grigio” e “Marina” del 1967, poi i primi “Gabbiani che volano” del 1969, quindi quell’autentico capolavoro dell’espressionismo adriatico che è “Presentimento”, 1970, ed ancora “Ultima speranza”, altro capolavoro, “Maschera triste”, pure del 1971, fino al “Figlio crocifisso” del 1974, antesignano de “Il Cristo di tutti”. Le forme si sostanziano in un solido ordine compositivo e nell’attenta scansione formale e cromatica. Il monumento a Jonathan Livingston, 1978-'86, è il suo testamento spirituale, inno alla libertà, all’ebbrezza dell’alto, alla solitudine come ricerca di perfezione, ma anche coscienza del ritorno agli altri. Nelle originali sculture in vetro la materia si dilata e vibra nella fusione tra moto, colore e forme.
L’ultimo periodo romantico è quello delle “Burrasche” in cui l’arte lupiana, come Shelling avrebbe voluto, si pone al centro, “come legame attivo tra i due poli dell’anima e della natura, tra l’illimite interiore dell’uomo e la natura stessa”. La più equilibrata e perfetta allegoria di questo periodo è “Creature della burrasca”, 1991, sintesi estrema tra neoromanticismo e neoespressionismo, impronta della propria unicità, nella quale umanità e natura costituiscono un “unicum”.
Lupo si spegne l’anno seguente lasciando un grande vuoto nella nostra cultura figurativa.
(dal catalogo “Mario Lupo" - 1984)
Incontrare un uomo o, meglio, un personaggio equivale, spesso, a rompere un guscio d'uovo da cui emerge, a gradi, una fisionomia che il tempo pareva aver cancellato. Per uomo, e per personaggio, intendo un artista che abbia nel cuore una cicatrice profonda. Ossia il segno del tempo. Una scansione dell'universo raccolta a viso aperto dal catino dei secoli. Dal frantumarsi delle stelle contro la superficie della terra e del mare. Nella quiete di Grottammare, alcuni anni fa, ho avuto questa sensazione. Precisa. Nitida. Eclatante. Con me c’era, logicamente, Mario Lupo, l’uomo-personaggio, l’uomo-artista, l’uomo-istrione. Si parlava d'arte. Di colori. Di momenti caratterizzanti. Si discorreva dei fatti del giorno. Del perché qualcuno provi gioia nello scrivere poesie o nel dipingere la realtà. Del come altri si premurino di cancellare i graffiti di una società che dall’arte e dalla poesia ha ricevuto, e riceve, i connotati più esaltanti e singolari.
Il tempo è passato velocemente. Forse non è neppure cominciato. Oppure è finito con lo sbuffare del vento contro la spiaggia lontana. Non lo so con esattezza, in quanto con Mario Lupo l’ora è salterina, rapace, appetitosa, impalpabile, leggera, strana ... Ti trovi a colloquiare che il sole è alto e te ne vai, pochi istanti dopo, e già le stelle tramano romanzi d’amore nel cielo caldo d’estate.
Per questo, probabilmente, la sua pittura - che rispecchia a fondo la sua personalità e il suo modo di intuire e di vivere l'esistenza quotidiana - è così solare, spaziosa, calda ...
In effetti, davanti ai suoi gabbiani che volano verso le sagome attorcigliate delle donne in attesa, si respira un alone di genuinità. Quasi una dimensione nuova che condensi affetti ed ansie, speranza e disillusioni. Se, poi, solchiamo le onde di quel mare che sembra fuggire verso un orizzonte indecifrabile oppure sostiamo a chiedere il motivo della nodosità che condiziona gli olivastri e i pini solitari, ecco che Mario Lupo si ripresenta con il silenzio tipico dell'infinito che rappresenta il mare. Da questo silenzio, comunque, si può ascoltare un grido intenso: il richiamo dell'uomo-pescatore che dà la voce alle onde, che suggerisce al gabbiano parole d'amore per la sua donna, che osserva da lontano il volto giovane del figlio che è appoggiato alla finestra. In attesa anche lui. Come la madre. Come la nonna. Come la sorella maggiore.
Da questi argini umani - resi con una pastosità cromatica in cui il segno è tutto e nulla al tempo stesso - si concretizza la realtà, sognata e immutabile, che Mario Lupo vuol fare conoscere all'uomo d'oggi. Distratto e computerizzato. Cittadino per scelta esistenziale e pescatore, contadino o boscaiolo per vocazione repressa.
L’eco raccolta da una conchiglia ripete, dunque, il diario della memoria. E il passato non conosce frontiere: è sempre in agguato e si presenta con il nitore delle prime notti d'amore, con quel senso velato di gioia e di amarezza.
Per Mario Lupo è impossibile scindere il trionfo della natura e il dramma dell’essere uomo. C'è soltanto un modo per isolare l'attesa, la paura, la ripetitività degli affetti: la spontanea liricità di un fiore nelle mani stanche di una donna.
E la donna, con i suoi viluppi di sentimenti e le sue secolari rinunce, è sempre in primo piano. Sia che abbia il fazzoletto scuro piegato sulla fronte. Sia che, nuda, osservi il volo di un gabbiano. Sia che abbracci un pino irrimediabilmente solo.
Proprio rivedendo queste immagini-simbolo, questi argini-guida, questi gesti-storia, ho capito che, a distanza di anni, sono ancora a Grottammare. A parlare con Mario Lupo, il simpatico istrione che ha la faccia incisa dal vento e le mani che scalfiscono l’acqua con la stessa grazia con cui una piuma trasporta la sua tavolozza su un album variegato di soggetti raccolti dal cuore.
Mi auguro soltanto che il tempo si arresti. Ancora per un po’, almeno. Perché vorrei vivere a fondo il silenzio di una spiaggia rotto dal frantumarsi leggero di un’ala di gabbiano. Che ruba al mare il canto dell'uomo-pescatore donando alla donna in attesa un petalo di speranza.
L’incontro con un artista come Mario Lupo induce a riflessioni un po’ inconsuete in un mondo, voglio dire quello dell’arte e dei suoi addetti, che molto si concede agli artifici delle tendenze e delle mode. Artifici che sono del tutto estranei al “modo di porsi” di questo pittore; al suo linguaggio nutrito di pensieri chiari, concreti; alla sua visione salda, vibrante, narrativa.
Lupo ti costringe a fare i conti con una scelta di vita che coincide con il suo “essere di pittore”: una scelta consapevole, compiuta in tempi duri, che non gli consente ritorno. Per lui vuol dire mettere in gioco, giorno dopo giorno, una condizione di esistenza priva di tutele; vuol dire lasciare allo scoperto, sul campo della pittura, i propri affetti, le proprie aspirazioni, il proprio destino.
È quel che ha fatto (e fa) Mario Lupo.
Nell’alveo di questa testimonianza si può risalire il percorso compiuto da Lupo sino alle origini della scelta di un ruolo che sgomenta (almeno agli inizi): il ruolo del “pittore di condizione”. E in questo viaggio a ritroso sono d’aiuto i ricordi, ma soprattutto i quadri, eseguiti nei diversi periodi, che l’artista conserva nel suo studio affacciato sulla riviera adriatica e sospeso a piombo sul vecchio nucleo abitato di Grottammare.
Quei dipinti documentano un graduale, tenace, processo di liberazione dalle urgenze di una figurazione di consumo, per assumere, anno dopo anno, una qualità sempre più specifica, un valore sempre più autonomo, un significato sempre più nitido espresso in termini di autentica pittura.
Un cammino inverso, si può dire, rispetto a quel che compiono gli artisti nati in accademia. E in ogni fase di questo viaggio, ideale e insieme concreto, Lupo ha avuto con sé il pubblico: la gente dei primi timidi e spontanei acquisti e la schiera dei collezionisti autorevoli, guidati da ragioni implicite di cultura.
La presenza di Lupo nel panorama attuale della “società degli artisti” assume così caratteri del tutto atipici, il suo operare non rientra nei giochi a largo raggio delle opposte aree di tendenza. È una presenza che si impone solo per la forza persuasiva del suo linguaggio, sostenuto da un interno equilibrio tra immagine formale e impulso evocativo. L'originaria fedeltà ai luoghi naturali si trasmuta, nel corso del processo formativo dell'artista, in una lettura critica sia delle strutture essenziali del paesaggio che degli elementi di suggestione introdotti dalla figura umana. Se è vero che la realtà ci accompagna e ci sovrasta, e in ogni caso fa parte del nostro esistere, è anche vero che la presenza attiva dell’individuo sociale interviene sul luogo determinato della nostra esistenza per ricondurlo a quel nucleo di profonda autenticità che si identifica con la storia stessa della persona.
L’intuizione che la pittura non regge al confronto con la realtà e la deduzione, ad essa legata, che la ricognizione della condizione umana deve percorrere le vie delle più remote memorie affettive hanno guidato l’artista a individuare, attraverso le esperienze vissute nella quotidiana fatica del dipingere, le linee di un’essenziale e prosciugata linea figurativa.
La realtà, dunque, intesa come oggetto e spazio di rappresentazione, è la sostanza della ricerca di Lupo: una ricerca molto concentrata sull'impegno morale e molto approfondita sulla verifica della validità professionale. Ad opera compiuta, specie nel “paesaggio-figura”, pensiero e immagine si riassumono nei termini più spogli, misurati, essenziali: e ciò per il rifiuto degli affetti, ideologici o pittorici che siano, che sono invece cercati ed esibiti da tante ed attuali proposte figurative.
Sono quindi i segni di un inesausto tramando che affiorano fra le trame animate del mondo vegetale; sono le attese di un’umanità esclusa dalla storia che prendono forma poetica nelle figure serrate ai tronchi degli olivi, chiuse nella difesa ostinata degli affetti e delle memorie.
La visione di Lupo si regge (e si rigenera) su questo dissidio in termini fra le risonanze della realtà di natura e le istigazioni di una drammatica presenza umana.
Lo sguardo del pittore è selettivo e penetrante, va al di là delle semplici apparenze del visibile per cogliere la ragione intima del vincolo che unisce, in un comune destino, gli alberi inclinati dalla violenza del vento e le donne raccolte nella loro dolente attesa.
E perché la fantasia di un pittore abbia tale forza di trasposizione sul vero occorre che essa trovi riscontro in una lucida coscienza della complessità sulla quale si articola il mondo delle sofferte esperienze dell’uomo.
Sulla scena di una natura che si anima di una sua vita segreta ecco che si stagliano queste creature racchiuse in un desolato senso di attesa: sono apparizioni filtrate sugli echi delle memorie, testimonianze di un passato che distilla il suo sapore di verità sulla frontiera del ritorno.
Ecco quindi che le donne e gli olivi appaiono radicati alla terra, ma in posizioni che si completano: gli alberi si ripiegano alla forza del vento, le figure resistono, salde come la profondità dei loro affetti. Si ha così conferma che la realtà non è uno sfondo impassibile su cui si muove il gestire umano, ma è piuttosto il tramite (e la difesa) della nostra presenza sulla scena allarmata del mondo.
In queste immagini, percorse da un invisibile dissidio evocativo, Mario Lupo testimonia della propria capacità di emozionare al di là delle semplici apparenze del vero: è quel che avviene quando la pittura è linguaggio e invenzione, realtà ricreata della fantasia dell’esistenza.
(dal catalogo per la mostra alla galleria d’arte Macchi di Pisa - 1971)
C’è una consanguineità evidente fra la tavolozza di Mario Lupo, il segno essenziale e la tematica legata a motivi di vita semplice. Pochi toni che si trascrivano nel bianco del cielo o nel grigio della rena e sembrano esserne derivazione lontana tanto l’ultima stesura segreta degli azzurri appare un tessuto di luce.
E il segno non si attarda mai a descrivere, ma denuda tutto in una essenzialità ciò nonostante capace di contenere i pesi plastici nella squadratura geometrica delle case, nel vaso ligneo delle barche o nel contorno di quei personaggi quasi senza volto e parola, ma aggrumati gli uni agli altri in una desolazione che li affratella pur individuandoli uno per uno nella incomunicabile solitudine.
C’è in queste sequenze di Lupo una religiosità verghiana. Allo stesso modo come era stata ribattezzata «Provvidenza» la barca del naufragio, questo popolo di donne in attesa, di cui egli affoltisce la spiaggia, è costruito con colori che sanno di cielo. Terrignola quanto mai questa gente, proprio per la sua radicazione alle più drammatiche necessità quotidiane, ma trascritta in una versione pittorica quanto mai aristocratica e lirica: di un lirismo senza grumi. E così articolata di chiara spiritualità da aver bisogno di una architettura segnica di neri che la trattenga affinché non abbia a divenire solo ala e svoli via.
Sovrasta tutto il pensiero del mare.
Il mare di cui parla Garrone.
«Mare stridulo, estroso, traditore. Il più bel mare del mondo. Che tutte le sue ire raggruma tra Rimini e Ancona; qui i corrucci ombrosi, le bufere, gli scrolli arcigni, qui gli immensi bucati di onde fatti da invisibili lavandaie che strizzano, sbattono, insaponano e dopo i quali la distesa delle acque dà una vaga impressione di drappo steso ad asciugare.
Mare rabbioso, storto, epilettico, pieno di occhiacci e lampeggi, a giorni turchese e a giorni zolfo: colore e sentore. E quando in calma respira, gioca, parlotta sul greto, sempre ti guarda come un fratello ammalato che rida sonoro, domandi, risponda e intanto a noi trema l’angoscia nel cuore al pensiero che forse in quell’immemore riso sono in agguato le convulsioni che, rapido, lo rovesceranno tra poco.
Mare che non si arresta alla striscia sinuosa della spiaggia, si addentra, si affonda, a nutrire di sé le radici dei fiori nei giardini e le radici degli alberi nei frutteti: e persino nel Camposanto lontano, tre braccia sotto le zolle, vien su a guardare, con gli occhi verdi e insidiosi, la breve navicella senza vela che si vara per un viaggio più lontano che non quello di tutti gli incrociatori del mondo».
Ma questa, diranno, è letteratura.
Sì, certo.
Si tratta tuttavia di vedere se la confluenza della meditazione umana e della trascrizione pittorica non avviene su un punto che è quello della medesima accensione lirica perché in tal caso certe distinzioni diventano oziose, quel che conta essendo il respiro della poesia. Tanto più che tale respiro origina dipinti non derivati dalla contemplazione della pagina letteraria, sebbene da un diretto contatto con la vita che, proprio per questo, porta a coincidenza il mondo lirico della pittura col mondo lirico della letteratura. È a questo punto che il discorso pittorico di Mario Lupo deve essere analizzato nei suoi valori autonomi cercando di vedere fino a quale traguardo questo figurativo riesce a portare sulla tela interessi multipli, non esclusa una ricerca evidente di ritmazioni nello spazio pittorico che dà alla immagine valore di astrazione. Come dire che si sente quanto i suoi quadri siano frutto di un pensiero costante. E vien fatto di ripetere per lui ciò che è stato scritto per Marie Laurencin: «non ama i discorsi né i consigli e tanto meno i complimenti; mangia velocemente, legge velocemente. Dipinge con estrema lentezza».
Vero o no, è certo che questi suoi personaggi stanno a lungo dentro di lui prima di essere trascritti sulla tela e non diventano pittura finché da pensiero dominante non si mutano nel pensiero dominato da tutte le sue capacità espressive. Per questo, personaggi e nature in silenzio si dispongono secondo una successione di piani che il tono esalta con misura e delicatezza mirabili affidando ad una tavolozza di breve tastiera effetti di una spiritualità che suscita risonanze continue.
E sebbene larghi spazi siano dati all’ambiente, in cui figure e oggetti si collocano, e sono spazi indicati appena talvolta da un tono senza volto o da un’ombra stracarica di una intensa memoria della luce, non c’è mai un vuoto nella serrata tessitura che il dipinto offre lungo il dialogo delle pallide dominazioni, su cui si iscrivono come note in una partitura musicale per piccola orchestra, affidata al raffinato discorso della tavolozza, i segni neri e sottili dello scontorno ai quali è trasmessa una soffusa trepidazione come se la loro presenza potesse spezzare l’incanto di quelle voci insieme così estese e così intimamente accordate da non disturbare mai la musicalità del silenzio che sempre sovrasta il quadro.
Per un richiamo operato dalla analogia dei valori umani che si trasmuta in analogia di valori lirici vien fatto di ricondursi alle sequenze di un film intenso: “L’uomo di Aran”.
Nel film la luce scava fra i piani della rappresentazione la scoperta dell’immagine che diventa simbolo. Qui la luce si soffonde su tutto lo scenario della vita come un clima insopprimibile che le creature respirano: il mare è ovunque e non farebbe meraviglia che i contadini di queste campagne avessero sul palmo delle mani disegnata una lisca di pesce. E che a baciarli sulla bocca questi bambini sapessero di salsedine. L’eccezionalità di Mario Lupo è dunque l’aver ritrovato con la sua pittura le antiche cadenze d’una nuova e sconosciuta leggenda che risiede in questa perenne presenza del mare, nella scoperta di certi atteggiamenti spontanei e primitivi, nella forza quieta e drammatica della luce e nel valore delle lunghe immobilità su cui si intrama la tragedia.
L’autenticità della sua poesia consiste nell’aver individuato le ragioni di questa solitudine incomunicabile da cui piglia voce il vento che frusta le anime e le spoglia di ogni speranza. Da quando furono abbattute le vele della nostra barca e fummo gli sconsolati camminatori costretti ad affondare il passo nelle sabbie del litorale, mentre la meta è sempre a l’orizzonte.
(dal catalogo per la mostra antologica al rettorato dell’Università di Ancona - 1989)
I. La stagione giovanile tra naïveté e sentimento
Ripercorrendo l’avventura artistica di Mario Lupo, dalla fine degli anni Quaranta a oggi, si può avvertire qualcosa che somiglia ad un’interna circolarità, piuttosto che ad una dinamica rettilinea ed irreversibile. ln effetti appaiono subito ricorrenze e permanenze - in primis, come ha scritto acutamente Franco Solmi, la parabola «dell’uomo di vita travagliata che cerca, perché la intuisce per sorgiva apprensione, una strada inconsueta nel groviglio di crocicchi che un quotidiano non esaltante gli intreccia attorno». Tutto questo più evidente degli eventi diversi, magari traumaticamente distinti, susseguentisi nel pur unitario divenire di una medesima personalità. L’interno dinamismo è quasi sostanzialmente frenato, circoscritto e lento nella verità di sopravvenienti permanenze e di continui ritorni. Sfugge cioè, nella sua sostanziale autonomia, le connessioni immediate dei propri tempi storici, sia quanto a storia civile partecipata, sia quanto a specifica vicenda della ricerca pittorica; per circoscriversi invece piuttosto nella difesa delle pulsioni di un proprio immaginario su cui s’inserisce una costante caritas che qua e là diventa un malessere ideale e fisico pessimismo.
Per Lupo il punto di partenza e di arrivo consiste in una spontanea rappresentazione del suo paese natale, Giulianova; la verità arcaica e immobile di una regione, i secchi calcinacci di un tempo remoto e fermo, gremito di figure e di vecchi simboli, colto nelle evocazioni più tristi e sensibili, e in quelle condizioni di chiuso anelito, fuori dal contesto delle più importanti correnti artistiche del dopoguerra, ma ricco di una civiltà tuttavia inopportuna agli atteggiamenti attuali, però utilissima a ricomporre il peso della vita italiana sia sul piano nazionale: sia su quello universale. Corrono nelle ricognizioni memoriali dell’artista abruzzese-marchigiano una partecipazione attenta, una curiosità riproposta sempre con rinnovata magia lirica, con una grazia che vuole significare sempre meglio un discorso idillico e lievitante sulla ragione viscerale che lo spinge a dipingere un affresco grande e convinto di quella vita povera, in cui però «c'è un brivido d’infinito, un fervore di ore lontane, di spazi dimenticati sulla risorgente vicenda della natura, nel richiamo a una ideale pace dello spirito».
L’ inizio un po’ ingenuo e sentimentale si espande sotto il segno di una devozione verso l’arte del passato, che si articola nelle varie riproduzioni che Lupo venne componendo nei tardi anni ‘40: dalla pittura dell’Ottocento lirico e verista, ma anche da Cézanne. Il cesellare d’aprés non era solo un esercizio formale e tecnico, ma esprimeva una poetica recante alla luce le idee che turbinavano nella mente del giovane pittore. Quelle stesse che coltivate nella solitudine della provincia scioglieranno Lupo da ogni soggezione a un mero disegnare a nulla finalizzato. Non a caso Cézanne, di cui Fiori e frutti venne rifatto dal nostro nel 1949, è la base su cui si struttura il graficismo dell’immagine: la prima occasione per esperimentare i linguaggi cosiddetti moderni ma soprattutto per trasmettere gli impulsi della propria interiorità.
Credo però che nella Pescivendola del ’49, un olio ripreso da un dipinto del secolo scorso, Lupo abbia cercato anche qualcos’altro. Si dovrebbe aprire, qui, tutto un discorso sull’espressione; sulla parte, cioè, che l’artista ha sempre riservato ai moti psicologici dei suoi ritratti.
È un’attenzione precisa, confermata oltre ogni dubbio dalla testimonianza resa a Franco Brinati; attenzione che mi sembra crescente negli anni della maturità. In che modo spiegare, altrimenti, la sua predilezione per le «pitture nere» della Quinta del Sordo di Goya? «è il ciclo più bello del Prado», ha detto di recente Lupo. Ma non è tanto questione di stile. Capisco bene, invece, quanto debba essergli caro il ritratto de La popolana elegante, con occhi smarriti, sul punto di piangere come certi bambini che per un attimo intuiscono una dimensione più crudele dell’esistenza.
È questa, in fondo, la spontanea creatività che Lupo cerca sin dal principio: un gesto, un punto di vista capace di rivelare quell’attimo di coscienza disarmata della vita, quell’improvvisa cognizione del dolore che sfiora sempre, almeno una volta, lo sguardo di ognuno.
II. Il silenzioso incanto evocativo delle composizioni geometriche
Al ‘51 e al ‘52 risalgono rispettivamente Composizione e Natura morta «cubista», due oli su tela che stabilendo il contatto con le avanguardie novecentesche costringono Lupo ad investire il massimo del proprio capitale stilistico d’allora. Il reticolo cubista e Cézanne, cioè a dire la diretta conoscenza e la pratica puntuale di una scrittura eminentemente pittorica, non descrittiva o riproduttiva di qualcosa e non insomma referenziale, sono gli elementi che consentono al nostro di penetrare i segreti della propria natura. La pittura, una volta conquistata e issata sui giusti binari, imposta l’immagine del mondo circostante: quello dei cantieri navali, dei disoccupati, dei litorali deserti. Lo schema culturale, che è però un elemento catalizzatore che dirime come prospezione dell’immagine indagata sa secernere e governare la visione poetica. Lo stile s’arricchisce dei sughi mordenti del reale, ma questo non ricade sotto la sfera della riproduzione neo-realistica trapassando al contrario in un lirismo assorto e interiore.
È il periodo degli Studi prospettici (siamo nel ‘55), delle nature morte, dei paesaggi di mare e paese, quando le linee quasi si fondono in un colore etereo e musicale. La prospettiva si estende in profondità pur attraverso il tonalismo atmosferico, e si prolunga per gradazioni lente, di passo lieve. In genere, anche in altri lavori terminati sempre nel ‘55 quali Il pontone, Colline marchigiane e Paesaggio marino, le forme sono regolari, soltanto di rado sbrecciate (Paesaggio montano del ‘56) su uno spazio di fondo leggero e disteso, come raccolto in vapori d’alba; qua e là, inoltre, si imprimono segmenti rettangolari posti in verticale, quasi a segnare una misura sulla quale governare il ritmo complessivo.
Pittore quanto si può esserlo legato ai valori del mestiere come un mistico ruskiniano, dalla fine degli anni ‘50 Lupo lavora d’approfondimento cogliendo in una sintesi ormai senza fratture possibili, i frutti di una ricerca che aveva già avuto i suoi tormenti, le sue impennate, i suoi rivolgimenti interiori. Il color trasparente e soffuso cede il posto, in alcune opere, a un cromatismo più squillante. Valga per tutti la violenza del rosso in un olio su cartone telato del ‘58, Paesaggio.
Avviene che, a dispetto dei motivi originari, il quadro non resta mai asservito nel senso di una subordinazione veristica al tema, ma si istituisce unicamente su un sentimento di base che è la contemplazione o, meglio ancora, l’assorbimento lirico di un sentimento d’ordine cui la realtà incontrata abbia prestato alcune delle sue componenti formali. Qualunque sia il momento di partenza, paesaggi o nature morte, marine o gruppi di figure, la conclusione non appare sostanzialmente diversa. Ciò prova che l’artista ha raggiunto una Koiné espressiva nella quale si fondono le più disparate sollecitazioni alla sua vocazione; in fondo egli rende gradevole e luminoso ogni aspetto della realtà, vuol conservare fiducia in essa e così la unifica in una visione limpida, senza mai svilirla nella tolleranza di un vitalismo quotidiano, autre.
Nelle opere Ritratto di Riccardo del ‘59, Pannocchie del ‘60 e Angolo di Pesaro del ‘62, lo spazio si apre a una nuova infinità, non più imprigionata da strutture che segnavano misure finora ineludibili della geometria. La tavolozza policroma fatta di grigi, di bianchi, di celesti appena accennati, di dilavatissimi verdi, ora non segue distinzioni tattili, ma si stempera nella meraviglia di una luce di natura, che tutto avvolge nella memoria di incantati stupori e semplici magie. Ma vi è anche una fidente e pur assurda capacità di presentarsi come immagine «di ingenue motivazioni favolistiche», come riconquistata totalità epifanica. In questa felicità dell’impossibile, che Lupo raggiunge per vibrazioni di materia e di luce non più nascoste ma avvolgenti ogni segno che concorre all’opera, è l’approdo moderno della pittura di un artista che sembra ritrovare in se stesso, nel suo essere nelle cose e con le cose, la ragione profonda di una inedita solitudine. Ma è solitudine scelta e non imposta, capace di bastare a se stessa.
III. La struggente malinconia delle «Donne in attesa»
I segni di una svolta o almeno di una diversificazione della tavolozza giungono con l’incupimento di Notturno con cipressi (‘62) e di Notturno con vele (‘62). Ma non è un fatto di colore: quanto un ingrumarsi e sedimentarsi della materia e il più netto rilievo delle scansioni stilistiche. Così Ritratto di Marina‚ del 1963 impania le emozioni che guidano all’espressione nella valenza polisignificazionale di una tela a sensi multipli: questo in uno con l’altro esempio di Pescatore alla lampara (‘63). Mentre Vele al sole, o Vele, o anche Coro celeste, risalenti allo stesso periodo, esaltano il ritmo visivo disteso in affine misura di stile.
Subito dopo figure e paesaggi vengono statutizzati e plasmati da un tocco drammatico e ansioso. Quel mondo in apparenza libero si arresta e impressiona in blocchi statuari; vive in costruzioni pittoriche in cui l’accadere e lo sguardo trovano una risoluzione in snodi tormentati e gessosi. Poco per volta da un simile inquisirsi discenderanno le immagini che più e meglio individueranno Mario Lupo: quello con figure rivolte all’interno, raccolte e fuse in gruppi al fine di proteggersi dall’assedio caotico e ustionante delle forze in campo (tali Donne in attesa del ‘66 o del ‘68 o del ‘7 4, ma anche L'ultima speranza del ‘71, La morte del gabbiano del ‘73, L'affondamento della Provvidenza dell'anno prima). Sotto questo riguardo, la serie delle «Donne in attesa» si può dire emblematica per l’afflato di forte umanità che la connota.
È un gioco supremo dalle forme che Lupo ci regala, poiché il segno diventa lo specchio di una visione interiore. Con stupore, davanti al muro cieco di colore de La Piana di Catania verso Vizzini del ‘72, dell'Annunciazione del ‘73, del Sole freddo del ‘74 e di Fiori di carciofi del ‘77, avvertiamo un senso di profondità; come se l’occhio penetrasse nello spazio oscuro e privato di una coscienza, in un’altra dimensione: dove non esiste più il confine fra la visione esteriore e quella soggettiva, fra l’occhio naturale (ma qual è, poi?) e quello, misterioso, che dà luce all’anima. A qualcosa del genere forse tende la lunga, più recente stagione di Lupo, scandita dai suoi temi quasi ossessivi: «Dalle vertigini di quei cieli percorsi dall'albatro il cui biancore contro il sole appare come una lama accecante che volteggia sull’orizzonte, la fantasia del pittore cala sulla terra a proporci un popolo di donne che attende il suono della campana del destino nell'atteggiamento, molto spesso, di chi ha rinunciato alla lotta. Ma questa è soltanto un’osservazione di superficie, dato che le ‘donne’ di Lupo rappresentano, invece, l’attesa e, quindi, la speranza di tutti gli esseri umani in un mondo migliore dove la macchina infernale che abbiamo messo in moto con la civiltà della corsa tecnologica, dei consumi e degli sprechi non annulli i valori eterni della ragione e del sentimento».
Alla fonte di tutto, Lupo ha lasciato solo un tenue trasalimento, il residuo di una percezione. Il decennio Sessanta-Settanta, in questo senso, si può leggere come un lento, progressivo sciogliersi e consumarsi di un debito nei riguardi di Rouault, di Soutine e di Varlin. Ma l’autore di Presagio del ‘73, Il fiume del ‘79, Cattedrale di Norimberga dell’84 e Ginestre sul Cònero dell’88-‘89, è un pittore circondato (difeso, vorrei dire) da un universo espressivo singolare, impenetrabile. Non nascondo che questo senso di chiusura, che si avverte nelle sue tele (meno - stranamente - nei disegni e nelle stampe d’arte, nelle ceramiche e nei vetri policromi), può anche essere inteso come un limite, un ripiegamento. Io stesso, al primo impatto, mi sono trovato a chiedere più suono e più violenza, più colore; più desiderio, insomma, d’incidere sul mondo. Ma è una reazione ingenua, probabilmente, che disconosce la qualità sottile di una Forschung che è tutto meno che stanca, disarmata, e un po’ decadente; che forse, più semplicemente, ha rinunciato a imporre al mondo il proprio rigore e coltiva, in silenzio, la sua disperazione.
Persino l’universo circolare, quasi arbitrario, in cui si intrecciano le oscillazioni dello stile, nelle serie cicliche dei temi rivela una discrezione assoluta, del tutto soggettiva. Negli ultimi due decenni, ad esempio, ci imbattiamo in scatti quasi soutiniani (Peperoni del ‘66) e in dolci, pacate campiture di materia. E lo stesso tema, a breve distanza, può scegliere strade molto diverse, come se il dato iconografico, iterato, facesse da banco di prova per una «scrittura» ormai svincolata da ogni contingenza. I temi medesimi, a un certo punto, sostituiscono il diafano nucleo iniziale, il primo impulso percettivo; lo trasformano, lo saggiano, diventano metafore di se stessi. Nel pannello murale Corale attesa del ‘77, poi, affiorano le variazioni impercettibili dei dipinti antichi, il loro respiro secolare. E penso, subito, a un altro marchigiano sognatore del profondo, Gian Giacomo Pandolfo, il maestro del Cantarini, allorché ricogitava e rimodellava i temi della pittura nel cuore del Seicento.
IV. La metafora inquietante degli «Olivastri»
La volante drammaticità delle figure delle donne attendenti e conglomerante tutte insieme, drammaticità che nei quadri s’affida anche ai piccoli dettagli dei gabbiani, torna nel vento urlante che rabbiosamente ghermisce gli alberi sino a piegarli. L’illuminazione cosmica del colore che aveva investito le opere marine degli anni Sessanta s’oscura adesso nel groviglio dei rami. S’oscura cioè in esiti oscillanti tra il disegno referenziale e l’ingorgo stilematico, l’uno e l’altro operanti in funzione simbolica.
Non è allora un caso che il profondo senso di morte che invade i dipinti degli «Olivastri», cada tanto prossimo nel tempo a quella commossa meditazione sulle «Donne in attesa» che Lupo ha per un’intera stagione celebrato. Una profonda continuità tematica collega i due cicli, ma soprattutto li accomuna la qualità del sentimento e, dunque, la «parlata» della pittura. Ritornano in queste figure di olivi drammaticamente contorti, e talora perfino con accenti cosmici e più alti, il senso di solitudine e il silenzio che avvolgono le immagini delle donne; ma gli alberi appaiono spesso ancora più feroci nel rilevare la devastazione della materia e più grondanti d’espressione, «metafora scoperta della natura e delle sue forze in cui si riassumono tutte le vicende passate e presenti di una storia di drammi e di dolcezze, d’uragani e di pace, di sole e di vento. Una storia che non ha bisogno dell’uomo per essere detta e rappresentata».
Usassimo il pensiero di Bataille, si potrebbe in ultimo osservare - per dipinti quali Olivastro del ‘79, Il gigante frustrato dell’81 e Tronco di Olivastro dell’anno appresso - il richiamo del Cosmos come spinta originaria che muove gli organismi lungo la loro direzione e progressione vitale; mentre nell’uomo dà luogo alla complicata trama psicologica dei desideri, degli atti, dei suoi sentimenti. Esso è all’origine anche delle figure immaginarie della creazione artistica. Ma sull’altro versante sta il Logos, il sentimento della morte, ciò che Lupo risolve, in un’intuizione singolare, con il concetto di erosione ed è la spinta del Cosmos giunto ad una tensione così forte da diventare distruttiva, a dissolvere gli organismi e le forme trascinando la carie che corrompe.
Senonché, nella ricerca di Lupo, l’antagonismo di Cosmos-Logos non si manifesta soltanto nell’alternarsi e contrapporsi di iconografie evocanti opposti sembianti, o che richiamano opposti stati dell’essere (campi rigogliosi di ginestre e di papaveri - ad esempio - e rami e tronchi di alberi rinsecchiti); ma agisce e si rivela all’interno di una medesima opera; nell’immaginazione di un medesimo motivo. Nello stesso tempo esso illumina il senso dell’intero corso della pittura di Lupo: dai primi anni Cinquanta agli Oliveti e alla tragica e struggente suite del Cristo. Sono quelle opposte pulsioni i moventi psicologici che contraddistinguono i termini estremi entro i quali il percorso del solitario pittore di Grottammare trova il proprio svolgimento poetico.
---------------------------------------------------------------------------------------------
1 Franco Solmi, L’immagine Corale, Bologna, La Civetta, 1983, pag.1.
2 Carlo Barbieri, Mario Lupo, in “La Comunicativa”, 1965.
3 «- Che idea ha del sentimento della malinconia? Un’esperienza triste può arricchire e la malinconia è sentimento aristocratico, raffinato. La sofferenza crea uno spessore: al Prado di Madrid, Goya mi ha catturato per ore» (Presentazione al catalogo della mostra personale alla galleria Magazzeni, Giulianova, 1989).
1 Franco Solmi, L’immagine Corale, Bologna, La Civetta, 1983, pag.1.
2 Carlo Barbieri, Mario Lupo, in “La Comunicativa”, 1965.
3 «- Che idea ha del sentimento della malinconia? Un’esperienza triste può arricchire e la malinconia è sentimento aristocratico, raffinato. La sofferenza crea uno spessore: al Prado di Madrid, Goya mi ha catturato per ore» (Presentazione al catalogo della mostra personale alla galleria Magazzeni, Giulianova, 1989).
4 Nicola Scartozzi, Mario Lupo, In «Galleria» Rovigo, novembre 1966.
5 Giovanni Maria Farroni, Mario Lupo, Qualche miglio di tela olona, Agugliano (Ancona), Roby Arte Editrice, 1978, pag.30.
6 Cfr. Augusto Minucci, I dipinti di Lupo alla Viotti, in «La Stampa», Torino, 27 settembre 1974.
7 Malgrado l’apparentemente facile iconografia, credo che Lupo sia davvero un pittore per pochi. Nelle sue tele c’è qualcosa che tiene a distanza: come schiudessimo appena la porta di una stanza ben custodita, inaccessibile; qualcosa che impedisce di partecipare ad un accadimento esclusivo, personale, al quale possiamo assistere, sì, ma dal quale possiamo attingere solo ciò che, per avventura, corrisponde al nostro dolore, e fa corpo con le nostre illusioni.
8 Nelle opere di grandi dimensioni Lupo sfodera quella che i trattatisti (e prima, i maestri di retorica) chiamavano l’inventio, il dono di creare temi e caratteri che scaturiscono da un parto fervido e assoluto dell’immaginazione. Una gran parte della sua originalità risiede in questo dono. Con una differenza, però: che un artista moderno non sperimenta l’invenzione su canovacci consacrati nel tempo, come fa il Pandolfo nei lavori eseguiti per la chiesa pesarese del Nome di Dio, ma li improvvisa, se occorre li modula su un metro soggettivo e gioca, prova, si industria a farne un simbolo privato e soggettivo, sempre polivalente.
9 Franco Solmi, L’immagine Corale, Bologna, La Civetta, 1983, pagg. 9-10.
10Non si creda che l’iconografia del Cristo rientri marginalmente nella produzione di Lupo. Una ricerca specifica (che potremmo idealmente pensare preceduta da figurine di Vergini e Santi stilate in giovinezza) cade nel biennio 1986-’88. Si è trattato di opere eseguite su cartapaglia con tecnica mista, dove il tema principale e unico è quello della Crocifissione. Gesù è solo nella sua solitudine nel primo disegno; ma poi sotto la croce è affiancato dalle donne contadine del ciclo dell’Attesa, e dagli uccelli; e ciò che è più singolare, inchiodati sulla croce sono dopo di lui gli animali e le donne, e Lui prende il loro posto in basso, ai piedi della croce stessa. Non sono variazioni di poco conto, poiché indicano il sentimento popolare e quotidiano di questa cristologia, peraltro commentata dalle poesie di David Maria Turoldo e dai testi critici di Carlo Bo, Italo Mancini e Valerio Volpini nel volume della Maroni di Ripatransone intitolato Il Cristo di tutti, che è chiaramente un Nostro calvario, come ben dicono i versi di Turoldo: «Odo la tua voce a sera / ma nulla riusciamo a dirci / di quanto vorremmo. / è come se ognuno parlasse / dall’alto di una croce».
(dal libro “Qualche miglio di tela olona” - 1978)
Quello di Mario Lupo è un "caso" del tutto particolare nella vicenda artistica italiana. Non si tratta di un pittore isolato, dato che per quel suo carattere schietto ed aperto all'incontro con il prossimo, sempre pronto a donare amicizia a piene mani, a trovare punti di contatto con uomini e ambienti di ogni paese frequentato è, semmai, il contrario di chi, avaro di amicizie e geloso custode per calcolo mentale di un egoistico modo di vivere al di fuori della comunità, si isola, pago soltanto di una malintesa "privacy", senza tenere in alcun conto la vita di relazione. Per Lupo i rapporti con gli altri costituiscono una costante del suo muoversi all'interno della collettività di cui si sente pienamente partecipe, anche quando, nel suo arioso studio di Grottammare, trascorre intere giornate a lavorare sodo, senza distrarsi, badando solo ad affinare ancora il linguaggio di un racconto pittorico indissolubilmente legato alle vicende dell'umano e del naturale, conscio che, specialmente in arte, i traguardi, anche i più esaltanti, vanno sempre accettati come tappe, come momenti di un processo evolutivo che non conosce approdi definitivi in senso assoluto.
Forse, l'attributo più pertinente che può spettargli è quello di "solitario", anche e soprattutto riferito alla sua pittura che, si può affermare a voce alta, è priva di ascendenze, di parentele con gruppi o movimenti culturali, ma rappresenta - e non da oggi - qualcosa di autonomo, di personale, come, del resto, i molti critici che si sono interessati al lavoro dell'artista abruzzese formatosi culturalmente nelle Marche hanno opportunamente puntualizzato. Una solitudine nata, se vogliamo, dalla necessità di trovare nella propria interiorità il "materiale" indispensabile a formare il lievito dinamico della rappresentazione in direzione di un colloquio col mondo esterno. Non un chiudersi in se stesso per sottrarsi agli impegni maggiori, ma un cercare forza e idee, nutrimento morale e fantasia e, soprattutto la capacità di resistere, di perseverare a percorrere una strada irta di ostacoli. Non è da escludere che ad un ripiegamento su se stesso in senso autocritico e meditativo abbiano potuto contribuire alcune esperienze giovanili vissute in sodalizio con altri colleghi e risoltesi in gran parte negativamente.
Si tenga opportunamente presente che l'atteggiamento "meditativo" del fare pittura in Lupo è riscontrabile fin dall'inizio, quando, poco più che adolescente, disegnava gli umili casolari della campagna abruzzese ed anche in seguito, durante la lunga carriera in marina, iniziata in coincidenza con i tristi giorni della parte finale della seconda guerra mondiale, quando, scoperto il gusto del colore, eseguiva composizioni con costante riferimento al mare. Disegnava molto provando, nel realizzare rapidamente immagini riferite al mondo circostante, una sorta di piacere fisico. Ma la rapidità di esecuzione non escludeva mai un tempo di riflessione che, in parte anche inconsciamente, precedeva quel movimento nervoso della mano sul foglio. Pittura di meditazione, quindi, quella dell'artista solitario, che trova giustificazione piena anche se si tiene conto delle sue origini.
Figlio di modesti lavoratori (madre abruzzese, padre umbro), le ristrettezze ed i conseguenti sacrifici gli avevano ben presto fatto capire che la vita è soprattutto lotta e che senza lotta non si raggiunge alcun approdo. Da ragazzo, dopo alcuni anni trascorsi a Gorizia dove il padre aveva trovato un posto statale, aveva tentato vari mestieri, adattandosi a fare il barbiere, il fornaio, il gommista, il pastaio ed il raccoglitore di olive. Ma la sua vera passione rimaneva il mare e si iscrisse alle Scuole nautiche diplomandosi, dopo tre anni, padrone marittimo.
Furono tre anni durante i quali il ragazzo di Giulianova riuscì, dando prova di ferrea volontà, a raggiungere il primo, probante risultato della sua vita.
Al mattino, dopo aver lavorato tutta la notte a confezionare il pane, si recava a scuola, dormiva qualche ora nel pomeriggio, poi si dedicava ai compiti e, dopo cena, di nuovo al forno a guadagnarsi la giornata. Pur sottoponendosi ad un ritmo stressante tra scuola e lavoro, sentiva ogni giorno di più l'importanza di quello che faceva e andava avanti continuando a svolgere il gravoso programma che si era imposto per dimostrare, prima di tutto a se stesso, d'essere capace di imporsi un modello di vita che gli avrebbe permesso di inserirsi utilmente nella comunità. Era stata, quella delle scuole nautiche, una specie di rivincita su se stesso, dato che qualche anno prima, ultimate le medie, non aveva voluto più sapere di libri e di quaderni.
Dopo una prima esperienza come mozzo a bordo di navi mercantili in servizi nello Jonio, per aiutare la famiglia scelse la vita militare dove, in venti anni di lodevole servizio, visse esperienze diverse nelle varie destinazioni e nei molti incarichi ricoperti fino a quando, sottufficiale stimato ed apprezzato, ebbe il comando di unità costiere, incarico che gli permise di farsi apprezzare ancora di più per le sue doti innate di uomo portato ad esprimere, in ogni frangente, una personalità che si metteva in evidenza per generosità, senso del dovere, acuta sensibilità. In Sardegna, nel Veneto, in navigazione sul Po, nel Tirreno o in Adriatico, ovunque le ragioni di servizio lo hanno portato negli anni a cavallo tra il 1948 e il 1953, non ha mai abbandonato quell'esercizio del disegno che lo avrebbe poi portato ad approdi di certezza nel campo pittorico.
Coltivando quasi segretamente la passione di esprimersi attraverso il segno ed il colore, Mario Lupo ha tessuto incessantemente una trama di vita artistica che gli ha permesso, con relativa facilità, durante i primi anni del suo lungo soggiorno ad Ancona - ultima destinazione del "marinaio", prima dell'abbandono della carriera militare - di avvicinarsi alle esperienze di un artista dalle qualità umane e professionali come Bruno Fanesi. L'incontro con il pittore anconetano rappresenta forse uno degli stimoli maggiori per continuare la pratica di riprodurre, dal vero od a memoria, immagini e sensazioni. Fino allora Mario Lupo non pensava di poter diventare pittore, di arrivare a fare della pittura la ragione principale della sua vita. Il periodo trascorso accanto a Fanesi segna un importante momento di assimilazione culturale per Mario Lupo che, anche oggi, a distanza di quasi vent'anni, non ha difficoltà a dichiarare che la sua formazione coincide, massimamente, con gli anni trascorsi ad Ancona, la città che lo ha visto nascere pittoricamente e che ha assistito al primo ciclo del suo lungo racconto imperniato su una estrema tensione creativa. L'artista ricorda anche le delusioni e le sconfitte subite, in un periodo ormai lontano, così come non ha dimenticato la città che ha tenuto a battesimo i suoi primi tentativi, con i dipinti che realizzava dopo interminabili passeggiate lungo le banchine del porto, o nelle viuzze strette e ripide di San Pietro e di Capodimonte, in compagnia di Bruno Fanesi, il più anziano collega che lo ha incoraggiato fin dal principio, prodigo di consigli messi a frutto in modo semplice ma con impegno di coscienza. Erano tempi duri, da far passare la voglia di dipingere: i quadri che produceva non si vendevano. Una volta, in Romagna, da un mercante che acquistava decine di "pezzi" al mese da un altro suo collega, si sentì dire che se avesse "cambiato pittura" avrebbe potuto far soldi. Mario Lupo proseguì invece per la sua strada, tenendo sempre presenti i consigli di Fanesi e insistendo a dipingere quello che "sentiva". È una pittura semplice, perfino a volte un po' ingenua, se vogliamo, quella che si colloca nell'arco di tempo che va dal 1953-1954 fino al 1960. Colori teneri, rosati, giallini, verdi acqua, cilestrini, grigio-perlati, ma dosati nelle campiture, nelle masse e distribuiti con un equilibrio armonico che è già molto di più di un dipingere da dilettante autodidatta. Fanesi se n'era accorto e perciò incoraggiava il giovane amico ad insistere, approfondendo il discorso figurativo che, lentamente, si andava evolvendo diventando ben presto un racconto umano coerente. Sono scorci di sereni borghi marchigiani appollaiati su "irti colli", squarci di luminose marine, di banchine e moli operosi; disegna i calafati del Molo Sud, i pescatori che al Mandracchio rammagliano le reti; dipinge composizioni di bottiglie stilizzate, nature morte, inventa architetture che gli consentono di esprimersi nel gioco tonale quasi monocromo di costruzioni la cui forza si evidenzia attraverso i passaggi chiaroscurali. È un lavoro che diviene sempre più attento e sorvegliato, meditato quindi, di un giovane che avverte imperiosi gli stimoli del dipingere per stabilire un dialogo con gli altri.
Sono giorni magri, con lo stipendio di fame che lo Stato assegna ai suoi servitori e non è possibile neppure l'acquisto del materiale per dipingere. È il tempo delle tele ricavate da vecchie lenzuola di casa, preparate con certosina pazienza e poi accarezzate col pennello fino a ricavarne composizioni dove, prospettiva, impianto grafico, stesure materiche e valori cromatici rispondono a precise regole e conducono ad esiti niente affatto trascurabili. Il pittore è dunque presente a se stesso fin d'allora: la sua coerenza, il suo impegno, la sua volontà fanno riscontro con un modo di raccontare che pur scoprendo riferimenti e ascendenze attribuibili alla lezione di Fanesi, tende a discostarsene con un piglio di autonomia che diviene sempre più evidente. Lupo, del resto, avverte come una sorta di condizionamento che gli deriva dal sodalizio con il collega di maggiore esperienza con il quale condivide per anni le gite domenicali dedicate alle estemporanee nelle Marche e nelle regioni vicine, e s'impegna a svincolarsi da quella che, a lungo andare, potrebbe diventare soggezione se non addirittura sudditanza.
Allo scopo di guadagnare qualcosa che gli permettesse di non intaccare il magro stipendio con spese per la pittura, accetta un lavoro artigianale. In quegli anni andavano di moda gli armadi decorati a mano, con riproduzioni di scene ricavate da dipinti d'epoca. Per ogni armadio decorato intascava seimila lire, una cifra che gli consentiva di pagare qualche conto rimasto in sospeso da rivenditori di cornici e colori. Ma dopo breve tempo, pur riuscendo ottimamente nel lavoro che gli veniva commissionato, tronca il rapporto con il mobilificio e torna alle sue immagini "vere", nelle quali si riconosce. Anche se la decorazione degli armadi gli può aver procurato nuova amarezza considerando che ci si è dovuto dedicare per ricavarne un guadagno che dalla pittura non gli veniva, si è trattato pur sempre di un'esperienza quanto a conoscenza di nuovi materiali, di mezzi e strumenti mai prima usati.
C'è un episodio, nella vicenda di un uomo che non poche volte è stato sul punto di gettare la spugna e di abbandonare pennelli e tavolozza, che non è possibile trascurare volendo tracciare un profilo umano, oltreché un'indagine critica dell'artista abruzzese che si considera "pittoricamente" marchigiano.
Abitava una modesta casa dove lo spazio era così limitato che lo "studio" altro non era che la piccola cucina, dopo cenato e dopo che i figli Riccardo e Maristella erano andati a letto e la moglie, Margherita, aveva lavato i piatti. Vi si chiudeva dentro a dipingere e disegnare fino a notte inoltrata. Ogni sera così, con caparbietà, alimentando quel fuoco che gli bruciava dentro e che si placava soltanto quando il quadro era finito. Dipingeva ogni giorno ben sapendo che il pittore deve lavorare quotidianamente se vuole approdare a risultati apprezzabili. Ma al suo impegno non corrispondevano i risultati ... economici. I dipinti si ammucchiavano nella piccola casa, negli armadi, sotto i letti, ovunque: un certo giorno, la disperazione prevalse sugli altri sentimenti e distrusse un centinaio di tele. Dal momento che quei dipinti non li voleva nessuno, era meglio che sparissero, almeno avrebbe trovato di nuovo lo spazio, in casa, per riporre i quadri che avrebbe continuato a dipingere. La distruzione del lavoro sudato sì, ma la resa di fronte ai mercanti che avrebbero voluto una pittura diversa, "commerciale", no. Il carattere dell'uomo che avverte di essere sulla strada onesta, che vuole esprimersi in base agli stimoli interiori accompagnati dalle sensazioni e dalle emozioni esterne, è scolpito da un episodio amaro ma che ne esalta la dignità.
Una prima svolta nella pittura di Mario Lupo la si può collocare verso il 1956 allorché, usando la spatola al posto del pennello, realizza una felice serie di figure. Sono opere che preannunciano l'adesione convinta al mondo del lavoro. La dolce fermezza con cui realizza nel 1956 Il pigiatore, un dipinto che esalta una delle fasi salienti del lavoro del contadino impegnato a piedi nudi entro il grande tino a spremere l'uva, è la prova che nel giovane pittore di allora c’è già quella carica esistenziale, quella capacità di approfondire il senso della figura umana che in seguito gli darà un segno di identità ben precisa, tanto da consentirgli una collocazione non certo di retrovia nella vicenda artistica italiana degli ultimi dieci anni. Del resto, di quel periodo, c'è un altro dipinto della stessa forza espressiva -''Il timoniere'' - risolto con altrettanta convincente autenticità di mestiere.
I lavori datati 1956, 1957 e 1958 contengono tutti i germi dell'ulteriore, fecondo racconto che proseguirà fino al raggiungimento di traguardi elevati. “Il mare povero”, “Autoritratto”, “Calla”, “La fede”, sono soltanto alcuni dei numerosi quadri di quegli anni in cui nel continuo misurarsi con gli egoismi e le cattiverie del mondo, nella dura lotta per superare il muro di incomprensione che avvertiva attorno a lui, Mario Lupo andava aumentando, seppure inconsciamente, quel senso di libertà nella scelta dei soggetti, frutto di una ricerca guidata dalla mente e dal cuore dell'uomo che continua a credere in se stesso ed anche negli altri.
Il 1958 è l'anno che gli vengono accettate due opere al ''Premio Marche'' che gli fruttano il premio-acquisto del Comune di Falconara. Due teneri dipinti - un paesaggio e una marina - che visti oggi, a distanza di venti anni, indicano in maniera chiara, la già acquisita proprietà di linguaggio. Dopo varie apparizioni in collettive a Urbino, Ancona, Jesi e Rieti - e di quel periodo è d'obbligo ricordare "Il Buon Pastore", un soggetto religioso di solido impianto - riesce ad allestire la sua prima personale alla Galleria Puccini di Ancona, nel 1960. Un debutto che gli frutta consensi convinti. Anche ad Ancona, città scontrosa e difficile da conquistare, come una donna altera custode dei propri intemerati costumi, ci si comincia ad accorgere che il giovane pittore il cui lavoro si svolge prevalentemente di notte nell'angusta cucina, merita attenzione e rispetto. Personali si susseguono a Bari, Forlì, Ferrara, San Benedetto del Tronto. È il periodo in cui Mario Lupo si esprime anche attraverso figure di fanciulli: ''I piccoli cantori'' e '' Angioletto nero'' sono nuove prove di vitalità di una pittura che sempre più abbraccia la tematica umana. Mario Lupo dedica ai fanciulli pagine di intenso lirismo e all’ “Angioletto nero" dedicherà nel 1963 un secondo dipinto, più arioso del primo. Il ritorno al pennello, dopo il lungo periodo trascorso dipingendo a spatola, coincide con un arricchimento della tavolozza: paesaggi carichi di atmosfera, barche in secca che avvertono la presenza dell'uomo anche se la figura umana non compare sulla tela, casolari bassi di povera gente con la risacca del mare che lambisce quasi le porte, spiagge desolate e tante vele.
Il 1963 è anche l'anno dell'incontro con la tela olona. Sempre impegnato in una duplice direzione di ricerca: quella riguardante uno stile espressivo che gli consenta di andare ogni giorno più vicino a quell'attivo dialogo che egli vuole costruire su un tracciato ben preciso fatto di memoria e di presenza; la seconda motivazione della sua ricerca è quella che riguarda gli strumenti di lavoro ed i materiali. Mario Lupo è, soprattutto, un lavoratore autentico, animato da una sete del conoscere riscontrabile soltanto negli artisti veri. Si può dire che ogni volta che si accinge ad affrontare una tela, prima ancora di incominciare, egli dedica una più o meno prolungata riflessione al materiale da usare per ottenere quei risultati ai quali tende. Ed è in questo suo atteggiamento, dovuto alla modestia di chi è conscio che nella vita ogni giorno che passa può essere utilizzato nell’apprendere un pizzico di sapere in più, che un giorno, mentre si trovava in navigazione in Adriatico, scorgendo il nostromo che stava tagliando della tela olona per mettere la cappa ad un verricello, se ne fece dare un pezzo e, una volta a casa, in quel cucinino angusto che dopo cena si trasformava in studio, dipinse un quadro dal titolo "Ciliegie di mare", ricreando, a memoria i "corbezzoli", tipici frutti del Monte Cònero, bacche globose, di colore rosso-vivo.
Quella prima tela venne dipinta senza preventiva preparazione mentre, in seguito, Lupo cominciò a preparare la tela olona, prima con una mano di biacca ad olio, poi, passandoci sopra gli avanzi della tavolozza e creando una superficie molto "mossa", supporto ideale di cui ancor oggi fa uso. Da quindici anni Mario Lupo, forse un caso se non unico certo raro in Italia, si serve della tela olona che prepara da sé.
Numerosi i premi ed i riconoscimenti negli anni che vanno dal 1961 al 1964: Terni, Sulmona, Ferrara, Macerata, Marina di Ravenna, Montecatini, Ascoli Piceno, Trieste, Vasto, Cavarzere, Pesaro, Imperia, Cassino; è invitato al Premio Michetti, alla Biennale di Arte Sacra dell' Angelicum di Milano, al Premio Terminillo, al Premio Nazionale "Il Lavoro" di Teramo, al Premio Matteucci di Pesaro, al Premio Nazionale Città di Faenza, alla Quadriennale di Roma ed è in questo periodo che espone al ''Podium'' di Berna, alla collettiva ''Otto pittori italiani'' e, successivamente, alla Mostra antologica della pittura marchigiana ad Amsterdam, figurando al primo posto in base ad un sondaggio condotto tra il pubblico olandese. Incoraggiato dalla critica che accetta con favore il suo lavoro, allestisce personali in numerose città. La sua pittura, dopo la "scoperta" della tela olona ed il ritorno per un certo periodo all'uso del pennello, ha un maggiore spessore, una corposità dovuta anche ad un più sostanziato impasto materico oltreché ad una tavolozza che è andata via via facendosi più accesa. Premi e riconoscimenti sono incentivi determinanti per il pittore che comincia a pensare di dedicarsi completamente all'arte, liberandosi dal condizionamento della carriera militare.
Pur vivendo una maturazione che è ben visibile nei lavori di quegli anni, l 'artista avverte il bisogno di sganciarsi definitivamente da una pittura che nonostante l'evoluzione avvenuta anche e soprattutto nell'impianto del quadro, nella sua costruzione più energica rispetto al passato, è ancora piuttosto ferma o, quanto meno, non ha quel dinamismo e quella forza che l'artista sente dentro di sé ma che per tanto tempo ha trattenuto per non uscire da quei canoni fondamentali che gli erano stati insegnati. La ''rottura'' definitiva, com'egli ama chiamarla, la svolta, il balzo in avanti verso spazi più aperti, verso una libertà interpretativa del reale, avviene nel 1966, in occasione di una mostra personale alla Sala Guglielmi di San Benedetto del Tronto, locale situato sul magnifico lungomare della città adriatica che Mario Lupo, da quel momento ha trasformato in luogo d’incontro culturale. In quel periodo aveva ripreso a lavorare di spatola e lo strumento di lavoro che circa quattro anni prima aveva abbandonato per far ritorno al pennello, gli dava ora risultati probanti, quei risultati che intendeva raggiungere ma che, forse, senza l'ausilio della spatola, non avrebbe acquisito. Le ''maschere tristi”, i “Pulcinella sconfitti'’ e le “donne dei pescatori'' sono i temi che ora predilige, mentre gli accordi cromatici assumono nuove profondità di grigi, di terre, di bruni e di bluastri, esaltati da biancori calcinati. Il discorso ha momenti drammatici di alta poesia ed in una mostra personale a Milano, nel 1967, Alfio Coccia, nel presentarlo in catalogo, nota acutamente la “religiosità verghiana” delle sue sequenze. È sempre del 1967 la sua partecipazione alla “Mostra d’arte italiana”, in occasione del centenario della fondazione della Confederazione canadese, tenutasi all' “ltalian Art Gallery” di Toronto; altra verifica molto importante, un anno dopo, a New York, anche in quest'occasione invitato, per la “Mostra-mercato” dei pittori italiani. La sua attività si è nel frattempo notevolmente accresciuta perché nel 1967 (dopo due anni di aspettativa) ha posto fine alla carriera militare, congedandosi e stabilendosi a San Benedetto del Tronto, città dove ha trovato un “clima” diverso da quello di Ancona e gente che apprezza il suo lavoro.
Il 1967 è anche l’anno che va ricordato per l’esperienza vissuta nell’organizzazione del “Club del quadro”, cui facevano capo giovani artisti come lui a fianco di alcuni tra i maggiori protagonisti della vicenda pittorica moderna quali Campigli, Manzù e Sassu. E proprio il “Club del quadro” gli permette di partecipare, a fianco di artisti confermati come Monachesi, ad una mostra organizzata a Milano per i dipendenti del “Corriere della Sera” ed a Rimini, alla riuscita manifestazione sulla spiaggia, consistente nel dipingere ogni pittore un ombrellone fornito dalla “Eliolona”, anticipando la moda-spiaggia 1968.
La "Sala d'arte Guglielmi", sarà per diversi anni un polo d'attrazione per molti pittori ai quali Mario Lupo offre un'ospitalità disinteressata in cambio di cordialità, di amicizia. San Benedetto del Tronto, in virtù delle innumerevoli iniziative di Lupo, conosce un periodo particolarmente felice di attività artistica. Vengono organizzate anche mostre nazionali, oltre a collettive e personali con la presenza di artisti di fama. Nonostante il comprensibile favore che le iniziative incontrano, Mario Lupo dovrà dapprima ridurre, poi rinunciare all'attività della galleria per non sottrarre troppo tempo al lavoro di pittore. Ma sarà anche quello della ''Sala Guglielmi'' un periodo denso di esperienze, di contatti culturali, di nuove conoscenze che influiranno certamente sull'ulteriore ''iter'' dell’artista che nella primavera del 1972, su invito del Comune di Catania, allestisce la grande mostra “Omaggio a Verga” nella città etnea, riscuotendo ampi e meritati consensi. Il verismo e la socialità di Giovanni Verga, trovano nella pittura di Mario Lupo non già l'illustratore celebrativo, ma una sincronia di analisi psicologica ed esistenziale condotta nella sfera degli umili, degli indifesi, coloro che continuano a sperare da sempre, tra i pescatori di Aci Trezza, emblematicamente configurati dalle "donne in attesa" che è come entrassero a far parte della “tragedia universale” raccontata dal grande scrittore siciliano.
Pochi mesi prima della grande mostra di Catania, Lupo aveva esposto, su invito, in Francia, al ''Chateau de la Bertrandière'' e nel 1974, dopo altre personali che hanno ovunque lasciato echi favorevoli, su invito dell'Ente Provinciale per il Turismo, allestì una personale di carattere riepilogativo nell'aula magna del Liceo Scientifico di Ancona. L’accoglienza che il pubblico riservò a quella mostra lo ripagò, almeno in parte, delle molte delusioni subite proprio nella città che, pittoricamente, lo aveva visto nascere.
L'anno successivo, accoglie con entusiasmo l'invito dell'Amministrazione, Provinciale di Foggia che dà ufficialità alla sua mostra "Racconti dalla Daunia” e nel dicembre dello stesso 1975 gli viene conferito, a Roma, il Premio Marc'Aurelio.
Effettua parecchi viaggi all'estero a scopo culturale, visitando Olanda, Belgio, Francia, Spagna, Jugoslavia, prendendo ogni volta "appunti" che verranno tradotti in alcune saporite "guaches" (costa della Francia del nord e Olanda) e in una serie di dipinti dedicati al mercato di Zara. In Provenza come in Normandia e in Andalusia, così come in Dalmazia e in Bretagna, le donne dei pescatori hanno in comune non solo il modo di vestire con quelle italiane, ma anche il portamento, dimesso e solenne insieme e lo sguardo di chi è abituato alle lunghe attese: rappresentanti di una classe che vive ai margini della società, ripetendo nel duro e mal compensato lavoro di tutti i giorni, gesti e atteggiamenti che sembrano richiamare alla mente bibliche condanne. Acquisisce, con i frequenti viaggi all'estero, nuove esperienze ma, soprattutto, capta nuove immagini cosicché nuove stratificazioni vanno ad arricchire la sua memoria di artista desideroso di conoscere per dare al suo lavoro ulteriore spazio, maggiore libertà di luce, di colore, di movimento. Non è difficile, infatti, accorgersi che i dipinti degli ultimi anni, a prescindere dai soggetti preferiti, sono sostanziati da una carica vitale particolare, espressa in termini di robustezza d'impianto grafico ed attraverso ritmi coloristici che hanno sonorità molto alte. A quel grande popolo di donne in attesa, sono venuti a fare compagnia stormi di gabbiani il cui elegante volteggiare bianco si staglia con barbagli di luce nell'azzurro dominante. Ai gabbiani si sono affiancati gli ulivi ed i pini straziati dalle intemperie, le immense distese di campi rigogliosi della Capitanata e del Catanese, gli olivastri rabbrividiti di Torre Mileto e le lampare sulla battigia che diffondono una luce livida di tragedia su donne il cui capo chino nel dolore, sottolineato dagli scuri bellissimi che racchiudono le forme, evoca l'attesa dell'ultimo tramonto della vita.
Gli ultimi tre anni sono stati caratterizzati da avvenimenti di notevole importanza. Nel gennaio del 1976, la personale tenuta alla galleria “André Weil” di Parigi ha fatto registrare un promettente successo di critica e di pubblico, così come è accaduto nel 1977, a Stoccolma, con la nutrita mostra allestita alla galleria “St. Nikolaus” su invito di Torsten Bergmark, docente di storia dell'arte all'università della capitale svedese. Nello stesso anno, il comitato organizzatore presieduto da Ennio Morlotti e di cui fanno parte Giuseppe Ajmone, Giancarlo Cazzaniga, Bruno Fanesi e il gallerista Giulio Bergamini , gli ha conferito la "Ginestra d'Oro del Cònero" in lode del suo impegno di lavoro orientato essenzialmente nella esaltazione della condizione della donna appartenente alle classi più umili. Una tappa di eccezionale importanza, nell'iter di Mario Lupo, è costituita dal gigantesco dipinto "Corale attesa". Quando, nel 1976, è stato chiamato dai fratelli Castelletti - industriali di San Benedetto del Tronto aperti ai fatti culturali - ad eseguire un dipinto di dimensioni fuori dall'ordinario, si è messo al lavoro con ferrea volontà, dedicandosi per mesi e mesi solo alla realizzazione del grande pannello di sessanta metri quadrati che dalla primavera del 1977 troneggia nello spazioso atrio dello stabilimento "International Concorde". L'artista ha realizzato l'opera attraverso un racconto robusto ed articolato, con ricchezza d'inventiva, sapiente misura d'impianto grafico, con equilibrata e magistrale distribuzione del colore. Le donne, sempre trepidanti per la sorte dei loro uomini che affrontano la quotidiana fatica non sempre ripagata, su quel mare che è dolore, angoscia e mistero anche quando i gabbiani volano alti nei giorni di sereno, costituiscono, ci piace ripeterlo, il tema dominante della sua vicenda artistica più recente. Sono donne in pena, donne che sperano, donne che pregano, donne che cantano, donne che offrono al loro uomo lontano infinito e saldo amore.
E nel gigantesco dipinto (dieci metri di base e sei di altezza) che rappresenta il riepilogo di un ciclo pittorico che racchiude non meno di cinque-sei anni di attività, le donne sono esaltate in primo piano, in atteggiamento di riposo in prossimità della spiaggia lambita dalla risacca, lontane dai sensuali abbandoni così ricorrenti nelle immagini pittoriche riferite alla "femminilità", ma sempre e comunque impegnate a reggere il pesante fardello molto spesso amaro mentre, a pochi passi, i figlioletti intrecciano giochi o raccolgono gli umili fiori che - miracolo della natura - sbocciati vincendo la sfida col salmastro, offrono alle nonne anch'esse partecipi del coro quotidiano della fatica. E gabbiani, e lampare, e barche in secca, e vegetazione bassa, quella tipica dei litorali mediterranei, non sono dettagli trascurabili, né compiacimenti posti a corollario di un fulcro centrale ben riuscito e quindi in grado di reggere "scenograficamente" particolari di carattere riempitivo che non pochi mestieranti sono soliti inserire a completamento del lavoro commissionato.
A parte il valore emblematico e stilistico, di cui diremo nelle conclusioni, ogni figura ed ogni oggetto, giustificano la propria presenza quali momenti, tutti egualmente importanti oltreché necessari, del lungo racconto scandito da accordi cromatici che in una scalatura tonale iniziante con le note smorzate del mare lontano, all'orizzonte, raggiunge i vertici degli azzurri squillanti e dei violacei che assorbono la luce nei primi piani delle figure femminili dagli occhi fissi, sgranati verso la speranza di un anelato riscatto. Le linee prospettiche, coordinate e tutte convergenti al centro, che sono servite all'artista per ottenere in ogni punto del "murale" un magistrale equilibrio, riescono a pilotare lo sguardo dell'osservatore, stabilendo un esemplare rapporto di distanza "focale" da qualsiasi posizione ci si ponga e permettendo di avere a portata d'occhio sempre una visione d'insieme dell'immenso spazio dipinto.
Non era la prima volta, del resto, che Lupo si cimentava in composizioni di ampio respiro. Nel 1975 e nel 1976 aveva realizzato le scene per il balletto di Caterina Ricci al "Ventidio Basso" di Ascoli Piceno, offrendo sia nel primo contatto con il teatro, "I gabbiani", sia nel secondo, "II mare", altrettante prove di intelligente creatività. Ma nello splendido "murale" realizzato per la grande fabbrica di San Benedetto del Tronto, la sua fervida fantasia ed il suo maturo magistero si son potuti esprimere in una dimensione che è servita, se non altro, a dare l'esatta misura del suo linguaggio di piena autonomia stilistica, frutto di una costante ricerca espressiva che ha raggiunto livelli di elevata umana poesia.
CONCLUSIONI
La vicenda artistica di Mario Lupo, che rispecchia un raro esempio di costanza, di forza d'animo, d'impegno a rimanere, nonostante spinte e sollecitazioni interessate, sempre fedele a se stesso, al suo credo in una pittura fatta di verità che non si esaurisce affatto nei valori formali, più o meno arbitrariamente può essere suddivisa in quattro “stagioni” che non hanno avuto, per la verità, l'andamento cronologico e rituale degli equinozi e dei solstizi. L'inizio è paragonabile ad una timida primavera con i colori tenui dei peschi e dei mandorli, e della prima erba dal verde tenero. A questa prima fase, durante la quale il pittore ha cercato di mettere a frutto le lezioni di chi ne sapeva più di lui, ha fatto seguito, e siamo attorno al 1956, un inizio di discorso autonomo con quelle figure stilizzate in verticale come a rappresentare la tensione di una speranza verso il raggiungimento di traguardi più alti. Questo secondo ciclo, che riferito alla tavolozza potremmo idealmente collocarlo in un fine primavera-inizio di estate poiché la luce penetra già i colori che assumono maggiore solidità, trova conclusione nel 1963, con le "Ciliegie di mare", raccolte durante una breve escursione domenicale sul Monte Cònero, e che coincide con la “scoperta” della tela olona, un supporto che permetterà a Lupo di approfondire la sua ricerca ormai orientata prevalentemente verso una tematica sociale. È un ciclo che si caratterizza per un ispessimento della stesura materica e per un impianto cromatico articolato su toni profondi dove predominano i grigi, i nerastri, le terre: un pieno, drammatico inverno che rappresenta una sintassi visiva diretta verso un formale assoluto. È questo il periodo che prelude ad una nuova stagione, quella che dura ancora: un'estate mediterranea rigogliosa, in cui i colori brillano di accensioni, dando vita a raffigurazioni che sono il risultato a cui l'artista è pervenuto attraverso una pittura sempre intensa, corposa, dove la luce è entrata in modo totale, perentorio, creando, a volte, vere combustioni, proprio come avviene durante gli irripetibili tramonti mediterranei.
Dipingendo senza sosta miglia e miglia di tela olona, in un'epoca in cui - come più volte ha affermato un insigne studioso marchigiano, Pietro Zampetti - l'ansia di rinnovarsi ad ogni costo brucia molti artisti, novelli sifisi portati a ritenere di aver finalmente trovato quella verità che invece sfugge loro di mano, pesantemente, di volta in volta, Mario Lupo ha saputo mantenersi coerente, affrontando con tanta umiltà le numerose prove a cui si è sottoposto, lavorando quotidianamente per ore ed ore, distruggendo, a volte, quei dipinti che non riteneva riusciti secondo il suo disegno mentale. Ed è proprio l'umiltà, sua dote innata, che gli ha permesso di raggiungere una posizione di prestigio nella vicenda artistica italiana. II tema del gabbiano è vissuto da Mario Lupo quale nostalgia di liberi cieli azzurri dove l'accadimento ha l'imprevedibilità del mare che, d'improvviso, s'infuria seminando tragedia.
Dalle vertigini di quei cieli percorsi dall'albatro il cui biancore contro il sole appare come una lama accecante che volteggia sull'orizzonte, la fantasia del pittore cala sulla terra a proporci un popolo di donne che attende il suono della campana del destino nell'atteggiamento, molto spesso, di chi ha rinunciato alla lotta.
Ma questa è soltanto un'osservazione di superficie, dato che le "donne" di Lupo rappresentano, invece, l'attesa e, quindi, la speranza di tutti gli esseri umani in un mondo migliore dove la macchina infernale che abbiamo messo in moto con la civiltà della corsa tecnologica, dei consumi e degli sprechi non annulli i valori eterni della ragione e del sentimento. Aver affidato alle donne dei pescatori questo messaggio di speranza e di riscatto in rappresentanza di tutto il genere umano, è un merito importante dell'artista. Quelle figure che sembrano massi calcarei quasi a contatto con il mare, sono le donne che non hanno tempo di dedicare il loro corpo alle frivolezze e alle mondanità, impegnate come sono a tessere giorno dopo giorno quell'ordito di solidarietà che affratella la gente delle marinerie di qualsiasi parte del mondo. Consce del loro duro destino, compiono il dovere di madri, di spose, di sorelle e di compagne senza odiare, con una dignità che è anche fierezza di lavoratrici ben presenti a se stesse in ogni momento della loro faticata giornata. Nella loro "divisa" di vittime predestinate, dev'essere individuata la forza del loro carattere, la robustezza dei loro sentimenti, la grandezza del loro cuore che batte in sincronia con le onde del mare, consumando, appunto, l'attesa del mondo. Il tema difficile che Mario Lupo continua ad affrontare ha una precisa radice culturale, quella che gli deriva dal lungo, travagliato lavoro del marinaio nella cui anima di poeta il fuoco di un'autentica mediterraneità ha un giorno trovato liberazione verso ampi orizzonti di certezza, in una coerenza che non ha mai voluto essere insensibilità rispetto alle contraddizioni del tempo. Mario Lupo, nel mantenersi fedele alle idee che ha conquistato con tanta fatica, ha saputo ricostruire la storia recente di una categoria umana che rappresenta quanto di più nobile e di più elevato esiste.
L’OPERA GRAFICA
di Giovanni Maria Farroni, dal libro “Qualche miglio di tela olona”- 1978
Rispetto alla pura e semplice descrizione di un’immagine immediata, il disegno ha una sua molto più vasta funzione: è, infatti, la precisa trascrizione grafica o il simbolo delle idee e delle meditazioni di un artista, poichè è l’esatta ed esigente stenografia attraverso cui l'artista si esprime nei momenti di maggiore libertà.
Eseguito usando penna, pennello o matita, l'immagine che ne risulta può essere a volte fissata velocemente, a volte faticosamente, a volte con meditata deliberazione, a volte, infine, con slancio spontaneo. Si tratta, sempre e comunque, di un mondo privato dell'artista, quello più segreto e perciò riservato a pochi.
Anche Mario Lupo, artista autentico, ha una storia intima scritta attraverso l’opera grafica. Sono disegni che datano perfino più di trent'anni addietro, quando poco più che ragazzo, si dilettava a riprodurre cartoline illustrate o vecchie stampe. Era anche quello un esercizio "per fare la mano" al disegno che gli consentirà in seguito, di dedicarsi con risultati probanti all'uso di tutti i mezzi praticati dagli artisti per disegnare, schizzare e fissare appunti di viaggio, immagini rapide che, portate poi sulla tela, diventeranno dipinti, opere definite.
Ordinare oggi centinaia di disegni riuniti a caso in cartelle o nelle scatole della carta da lettere, è per Lupo un rivivere circostanze indimenticabili, atteggiamenti e luoghi di anni passati. Le barche ed i pescherecci del Mandracchio, i calafati dei cantieri del Molo Sud, le case dei vecchi rioni di Ancona, le banchine del porto, i rimorchiatori e le gru; e ancora: le piccole case basse quasi lambite dalla risacca sul litorale del suo Abruzzo, gli alberi spogli della stagione invernale, le immagini dei suoi figlioli, quelle dedicate a studi di mani o di piccoli nudi acerbi, sono altrettanti mezzi per esprimere sentimenti e stati d'animo interiori, mezzi semplificati che danno maggiore spontaneità e genuinità all'espressione.
A parte quelli degli anni giovanili, di quando cioè Mario Lupo non pensava minimamente che un giorno si sarebbe dedicato all'arte, è riscontrabile in ogni suo disegno una integrità ed una coerenza stilistica che vanno di pari passo con la sua maturazione pittorica. Equilibrio e misurata cadenza di immagini che documentano il fervore operativo di un artista che ha condotto una diligente ricerca in direzione della verità.
L’eloquenza della linea è sempre riscontrabile nei disegni di Mario Lupo, sia che si tratti di rapidi appunti, sia che ci si trovi di fronte a bozzetti preparatori di opere pittoriche. L'artista, in questo campo, non si è mai preoccupato della impeccabilità delle esecuzioni, anche se la pratica, negli ultimi tempi, l'ha portato ad esiti più ricchi di movimento, più carichi di vitalità. Conoscitore di tutti i mezzi, di tutti gli strumenti che, pagando sempre di persona, ha sperimentato fino ad impadronirsi dell'uso, Mario Lupo è un vero disegnatore: matita e taccuino sempre pronti per quell'esercizio mentale di cui non può fare a meno per registrare, con le immagini, gli stati d'animo, le sensazioni, i momenti di più intensa emozione.
Ed il disegnatore vero è un grafico nel senso più specifico del termine. Un grafico le cui qualità, appena gli è stata offerta occasione, non hanno tardato a rivelarsi.
Dopo un periodo che potremmo definire “sperimentale”, Mario Lupo, mosso dal desiderio di cimentarsi nel campo difficile della grafica, ha dato inizio ad un'attività incisoria notevole. Nel suo attrezzato laboratorio di Grottammare, egli risolve direttamente sulla lastra metallica la storia di un oggetto, cogliendone le trasparenze, fermandone le ombre, esaltandone i barbagli di luce, con bella padronanza del mezzo, sia che lavori all'acquaforte in cavo, sia che si dedichi al metodo indiretto, quando preferisce “far mordere” la lastra dall'acido, lavorando la vernice molle, l'acquatinta allo zucchero e infine l'incisione a colori mediante l'uso di più lastre.
C’è un’acquaforte a dieci colori che Mario Lupo ha ultimato da non molto tempo, che colpisce per la nitidezza dell'intero impianto, costruito con saggia distribuzione di ombre e di luci, di segni e di spazi, di colore: si tratta di un risultato pittorico di prim'ordine, la verità del rapporto che l'immagine (in questo caso, gli alberi flagellati dal vento) stabilisce fra se stessa e il dramma della realtà; la realtà del mondo esterno che l'artista riesce mirabilmente a unire con quella dei depositi della memoria e del sogno, facendone una realtà sostanziata di meditazione, lievitata di angoscia.
Sono molte le lastre che Mario Lupo ha inciso ed in esse tornano i temi della sua vasta ed articolata opera pittorica: le donne in attesa, i gabbiani, le tempeste, le case dei pescatori, le lampare, le marine, i paesaggi e le figure. Il pregio maggiore dell'incisore Mario Lupo sta nell'aver saputo portare la pittura sulla lastra, l'aver saputo, cioè, continuare a dipingere anche usando il bulino e l'acido. Un merito che gli va riconosciuto pienamente.
(dal catalogo per la mostra “Omaggio a Verga” - 1972)
Strane concordanze andavo scoprendo, dal primo incontro con la pittura di Mario Lupo, tra la dimessa e tenace fedeltà delle sue «donne di pescatori» ed il mondo, a me tanto caro, del grande narratore lirico-epico Giovanni Verga. Ma già Alfio Coccia, in un saggio dedicato all’abruzzese, così scriveva nel 1967: «C’è in queste sequenze di Lupo una religiosità verghiana. Allo stesso modo come era stata ribattezzata “Provvidenza” la barca del naufragio, questo popolo di donne in attesa, di cui egli affoltisce la spiaggia, è costruito con colori che sanno di cielo. Terrignola quanto mai questa gente, proprio per la sua radicazione alle più drammatiche necessità quotidiane, ma trascritta in una visione pittorica quanto mai aristocratica e lirica: di un lirismo senza grumi. E così articolata di chiara spiritualità da aver bisogno di una architettura segnica di neri che la trattenga affinché non abbia a divenire solo ala e svoli via».
È fortissima la tentazione di approfondire l’indagine critica sulla genesi di queste concordanze, e si potrà pensare che l’arte immortale del grande Catanese si è effusa nell’anima e nei modi di un pittore affascina-to dall’originale naturalismo - verismo verghiano - e dalla validità obbiettiva della sua opera: in una parola, si spiegherebbe Lupo con il senso della contemporaneità di Verga.
Tutto ciò è vero, ma nella misura in cui si è disposti ad accettare la autonomia artistica della interpretazione filmica che de «I Malavoglia» diede Visconti con il suo capolavoro «La terra trema».
Lupo non interpreta Verga e Verga è già pittore irraggiungibile perfetto inimitabile.
Eppure quanto amore c’è in queste tele di Lupo per il mondo verghiano: c’è nel sottosuolo la stessa radice mediterranea, una fresca e aperta disposizione romantica, la spinta liberatrice dagli sterili schemi e programmi culturali, la commossa partecipazione - schiva e disincantata - al dramma della solitudine, «lo studio sincero e spassionato» della povera condizione umana e non per seguire demagogie imperanti, ma per il potente veicolo del sangue, che ti fa sentire uomo tra uomini. Sono le più semplici e convincenti ragioni d’arte, le stesse che collocano il Verga nel Tempo, che chiariscono il rapporto dei contemporanei con l’eredità verghiana.
In Lupo l’elaborazione formale è tutt’uno con la percezione del sentimento: si realizza così la sintesi tra contenuto e forma, un equilibrio spesso perfetto, perché già nell’intimo dell’artista v’è una sorta di appagamento, una felicità che non può non essere espansiva, a costo di dolorose osservazioni della realtà.
E vano è il tentativo di contenere il segno della commozione.
Così, anche nell’opera di Lupo, una vena di tristezza, una apparenza di calma rassegnazione, copre di cenere grigia il fuoco dei sentimenti.
Le donne acquattate come ostriche sugli scogli, la loro muta attesa sono i simboli della santità della tradizione, di cui tutti sentiamo, a volte inconscio, il rimpianto e che si identificano con il mare, la barca, i gabbiani che portano le umane speranze, l’ulivo antico e contorto, la semplicità d’una casa calcinata e ospitale.
I colori sono stesure liriche, l’essenziale è raggiunto con un segno deciso e lento, misurato alla forma-emozione. Originali costruzioni circolari, sono un pieno di narrazione, la conclusione di un discorso stilistico da tempo perseguito, vuoi per essenzializzare il dramma od esaltare la sferica bellezza del paesaggio quasi sempre marino.
L’incontro con Verga, con Aci Trezza, con l’Etna e forse anche con ‘Ntoni di Padron ‘Ntoni, con la malaria fumosa, è un bellissimo pretesto, che nulla aggiungendo alla felicità espressiva del grande Catanese, permette a Lupo, abruzzese ed adriatico, di pagare il debito, per conto suo, al Maestro di intere generazioni artistiche.
Non poteva non chiamarsi «Omaggio a Verga» questa sollecitante mostra di pittura.
Tema ricorrente nella pittura di Mario Lupo è l’attesa di creature umane, quelle donne infagottate di bianco, che non hanno senso se staccate dal mare. È forse un modo indiretto di cantare la storia dell’uomo che acquista una sua dimensione a confronto con il mare, che vive del mare, in compagnia dei gabbiani. Sono i gabbiani dalle bianche ali distese che si affollano con le loro volute intricate a dare una nuova dimensione alla poesia dei quadri di Lupo. È certo il suo originale espressionismo che conquista: quel mondo di cui tutti serbiamo, seppure inconscio, il rimpianto e che emblematicamente, si identifica con il mare, la barca, i gabbiani che portano le umane speranze, l’ulivo antico e contorto, la semplicità di una casa calcinata e ospitale. Corde vibranti ataviche angosce sono le onde che martellano il litorale, e quando si placano con la sonnolente cadenza della risacca, a chi sa ascoltare, narrano storie fantastiche. In questo «paesaggio», Lupo colloca i momenti perenni della vita, ora lieti ora dolorosi, sempre riscattati per magia di colore. Vedi perciò i suoi pescatori a volte stranamente mascherati da Pulcinella, o appena deposti sulla riva, naufraghi, o grappoli di donne mute o cicalanti, che sembrano intendere gli stridi dei gabbiani. E negli intervalli del suo discorso pittorico, esplodenti distese di fiori, di spighe, di pesci e ulivi, con il mare nel fondo. Una componente della poesia evocata da Mario Lupo è sicuramente data dalla funzione della figura umana con il paesaggio marino. Ma (ed è questa una tendenza che si enuclea dalle sue ultime opere) il gusto formale, l’eleganza stilistica, sembrano non appagare più l’artista: vi è, ora, una consapevolezza nuova, una partecipazione più sofferta ai temi del lavoro degli umili, senza l’ombra tuttavia di demagogie alla moda. A guardare i suoi quadri, ti sembra di rompere blocchi di pietra, per aprire squarci su essenziali visioni. Senti perciò invaderti dal fresco respiro delle cose. Le donne che stringono al petto creature imbacuccate, hanno una bellezza felina. Tutto è riportato alle origini che sembravano perdute. Alcune delle sue più recenti opere sono chiuse in spirali inscritte nel cerchio: risultano estremamente equilibrate nella linea, nei volumi e nel colore. Originali costruzioni che consentono all’artista di concludere, esasperandolo, il contenuto di desolazione e di commossa partecipazione al dramma della solitudine umana. Alla facile moda di tanti sperimentalismi, ai cosiddetti stilemi con cui molti oggi adornano il vuoto spirituale, Mario Lupo oppone la difficile e coerente ricerca della verità.
Ho sempre pensato che Mario lupo, pittore assai noto di gabbiani, di olivastri piegati dal vento e di malinconiche donne in attesa, sia davvero il protagonista di una parabola marchigiana ancora tutta da scrivere.
È la parabola dell’artista che s’è fatto un nome di prestigio, ma anche dell’emigrato in patria, di una condizione cioè che dovrebbe farci meditare, poiché spesso accade da noi che uno lasci Ancona e finisca quasi dimenticato a cinquanta chilometri di distanza, proprio come succede alla gente dell’entroterra che una volta sulla costa è considerata di un altro mondo. E questo vale finché non giunge la Fortuna, che non è affatto bendata e che quasi sempre «vende quel che si crede regali» - come diceva La Fontaine - finché non giunge il successo coi suoi frutti rigogliosi e appaganti, che sono poi quelli della maturità. Allora è tutto un altro discorso, la gente litiga per averti figlio adottivo.
La parabola di Lupo - voglio dire - ci esorta a guardare ai giovani con occhio attento, ad esercitare la facoltà critica senza preconcetti, a non avere la pigrizia mentale tipica di chi chiede immediate certezze. Morale: ne tengano conto gli Anconetani.
Io lo conobbi negli anni ‘60, confuso tra la folla dei partecipanti agli ex tempore, allora di moda, una medaglietta qua, una coppa là, la sera nell’alloggio troppo stretto doveva aspettare che fossero andati a letto i figli piccoli per poter dipingere con cavalletto in cucina.
Era allora un pittore di nature morte e di paesaggi marini, di umili borghi e di oscuri calafati, spatolate chiare e affettuose e molti ricordi di Morandi, di Mafai, di Carrà post-cubista.
Era un solitario, credeva nell’arte come messaggio etico. Al tempo delle nuove frontiere kennediane si mise a dipingere angioletti neri. Forse in essi scorgeva se stesso. Più che i circoli artistici amici aveva soltanto qualche amico artista, uno dei quali - ricordo - era Bruno Fanesi, anche lui innamorato dei moli del porto. L’unica soddisfazione che Ancona gli dette furono due opere esposte al Premio Marche. Credo che oggi le abbia il Comune di Falconara. Se ne andò, comunque, da un giorno all’altro, senza dir niente a nessuno, non a Parigi o a New York, ma a San Benedetto del Tronto. Proprio qui è cominciata l’ascesa di Mario Lupo.
Si era messo a gestire la “Sala d'arte Guglielmi”, una galleria poi divenuta assai nota negli ambienti artistici italiani, ma intanto andava maturando le proprie esperienze anche attraverso contatti coi maggiori pittori italiani e alcuni viaggi all’estero in Bretagna, in Normandia, in Andalusia.
Uscito (da Ancona via San Benedetto) dagli angusti confini regionali, andava esponendo in Italia e in Europa. Certo non furono anni facili. Me ne accennava una sera d’estate in quella stupenda balconata di Grottamare Alta, dove in un teatro settecentesco dal nome suggestivo, il teatro dell’Arancio, ha posto oggi il suo studio, che è un affollato inno alle meraviglie delle piccole cose quotidiane, coi vecchi e cari oggetti cui è legata la nostra esistenza, i tubetti del colore, i quadri, i libri le carte, i sestanti da marinaio, gli sfottò degli amici, e sotto montagne di fogli buttati, anche bottiglie di un vinello abboccato, fatto con l’uva, da lui ironicamente etichettato «L’acquolina del lupo».[…]
[…] Un paio di anni fa, quando ancora lavorava al monumento a Jonathan Livingston che oggi si libra sul molo di levante di San Benedetto del Tronto, mi confidò di essersi innamorato dei gabbiani - che tanta parte hanno nei suoi soggetti pittorici - quando faceva il mozzo a bordo dei mercantili. «In mare sono gli unici che non ti lasciano mai», disse. Che lo facessero per interesse neppure gli importava. In fondo stava edificando il monumento al gabbiano che non s’immiseriva nelle cose d’ogni giorno, un essere tanto perfetto da scomparire nel cielo come l’idea della libertà.
Eppoi, i gabbiani, nei quadri che andava dipingendo, li aveva destinati, tutti a simbolizzare la malinconia errabonda dell’andare per mare, che è in fondo la fatica del cercarsi il cibo. Ed erano anche, quei gabbiani, l’unico palpito di un essere vivente di fronte a quelle donne dallo scialletto scuro, dai piedi terragnoli, dalle mani gonfie, che immobili se ne stavano sulla riva, a capo chino, senza mostrare il viso.
C’è forse anche una ragione per cui “le pescatore” di Lupo raramente mostrano il viso, ed io penso che egli così le ritragga perché la fatica degli umili solitamente non ha volto, è anonima e incredibilmente astratta. Che viso avevano la Maruzza, la Mena de “I Malavoglia”, la Giudizza di «Maria Risorta» del nostro Grimaldi?
Non serve essere vivi - diceva Breton - se bisogna lavorare con dolore.
Qualche tempo fa si discusse tra i critici se in quelle figure immobili sulla battigia Mario Lupo abbia voluto identificare gli elementi di un dramma ineluttabile o di una speranza paziente e ancora aperta alla vita, se in queste madri e mogli e figlie dolenti, sgraziate a cui il pittore affida liricamente l’emblema della rassegnata emarginazione ci sia, più che una denuncia, uno stimolo a leggere con occhi commossi l’assoluta pena di quanti non fanno storia e per questo attendono: la fine della pena di vivere o la speranza di una resurrezione?
Che Mario Lupo, l’anonimo pittore di venti anni addietro oggi tornato tra noi, sollevi questo interrogativo dinanzi alla coscienza di ciascuno è grande merito, e oltretutto è un segno per indicarci la strada verso il grande rifugio della salvezza.
(catalogo per l’inaugurazione del monumento al Gabbiano Jonathan Livingston - 1986)
[…] Lupo mi disse un giorno di essersi innamorato del volo remigante dei gabbiani quando navigava in mari lontani. Certamente quelle immagini se le è portate dentro per tutta la vita, poiché nei suoi quadri spesso è il gabbiano protagonista di incantate marine insieme con mestissime donne in attesa, dentro albe rosate o nel celeste puro e liquefatto dell’imbrunire.
Anche Mario Lupo, comunque dev’essere come Jonathan: mai prima d’ora si era cimentato con la scultura di grande taglia e questa sua prima esperienza tradotta brillantemente con felicità di sintesi ed essenzialità nella soluzione narrativa (si pensi all’idea del grande cerchio in acciaio che lancia Jonathan nel cielo ma al tempo stesso diventa elemento descrittivo del paesaggio) è ancora una prova, oltreché del suo amore per il personaggio, del suo valore d’artista.
E in fondo, aldilà dell’opera creata, anche a Mario Lupo oggi si deve se tra i molti monumenti che in tante città del mondo celebrano qualcuno o qualcosa, San Benedetto ne ha uno che racconta come anche un gabbiano possa farsi pensiero. Perché proprio questo accade a Jonathan, nel libro di Bach.
Ricordate l’addio al gabbiano Sullivan? “Jonathan ormai sapeva bene - dice Bach - di non essere di carne ed ossa e penne, ma un’idea: senza limiti né limitazioni, una perfetta idea di libertà”.
Una realtà a lungo fantasticata e che, diventata pretesto di invenzione plastica e narrativa, riemerge sulla tela, è nella pittura di Mario Lupo.
Una pittura che si potrebbe considerare rude e delicata al tempo stesso, perché egli, avendo per tema prediletto la vita dei pescatori e del loro duro lavoro, dei grandi arenili dell'Adriatico tra Marche e Abruzzi, dove le donne sono in trepida attesa del ritorno dei loro uomini, e dove si riparano le reti e le barche, ne interpreta sovente gli aspetti più bruschi e drammatici; ne sente il sapore di salso, il travaglio della gente, il peso della tormentata condizione umana. D'altra parte, provenendo da quella tendenza «chiarista» che specialmente si è affermata ad Ancona, nei suoi modi espressivi Lupo intride al grigiore della sabbia, delle giornate ventose e nuvolose dell’inverno sul mare, i colori lievi, talora quasi bianchi della sua tavolozza. Essi spalancano grandi spazi, fanno circolare l’aria e una luce che sovente fa pensare all’alba iemale, spesso vagamente rosea.
Le forme delle figure, delle barche, delle case sono massicce e come slabbrate nei contorni, ordinate si potrebbe talvolta dire come scogli affioranti dalla sabbia di una spiaggia.
Una visione essenzialmente metamorfica della realtà nella quale entra una componente espressionistica nelle intenzioni e nella realizzazione, la quale ha una origine decisamente lirica.
Le tonalità sottili raffinano e consolano queste immagini sovente grevi e tristi, la scelta del colore entro registri brevi della tavolozza, appunto dalla finezza delle intonazioni riceve un risalto: una pittura che sa di lavoro, di mare e di sabbia, come dicevo prima.
Ma può accadere a Lupo di guardare ad altro: a fioriture di mandorleti, che con i petali caduti sulla terra grigia formano un tappeto d’un roseo quasi rosso sulla terra, mentre gruppi di donne lontane appaiono curve, intente a fare raccolta; può accadere a Lupo di guardare in alto e scorgere gabbiani bassi su onde tempestose e buie; può accadere a Lupo di guardare oltre le schiene di donne come acquattate sulla sabbia a lavorare e scorgere la linea decisa del mare, e poetare altrimenti.
Mario Lupo è nato a Giulianova, si è formato ad Ancona e abita attualmente a San Benedetto del Tronto: diresti che per questa sua vita svoltasi sempre sul litorale adriatico, dove tutto è legato al mare, è soprattutto quello spettacolo che lo affascina e gli dona la capacità di costruire queste immagini singolari, dense di un sentimento umano, che evocano la vita di chi nasce e muore ai bordi di quel mare da lui contemplato con occhi di amore.
Un’ iconografia scarna, essenziale, giocata con poche costanti ed alcune variabili. Le costanti sono il cielo, il mare, la spiaggia, i gabbiani, le donne; le variabili sono le risultanze di un intervento combinatorio attraverso il quale le costanti si organizzano o per fatto interattivo o per diversificazione cromatica. È evidente come un interesse semantico sia alla base della scarnificazione figurale e come preoccupi la ricerca di un linguaggio idoneo a decantare le cose e ad esprimere le loro significanze anche remote. Ne risulta non già una raffigurazione del reale pedissequo, bensì l’astrazione fatta segno e cromia come se l’artista, raggiunta l’intima verità nella purezza di una cifra, questa volesse rendere, rinnovata e vivificata, in nuova primordiale figurazione.
Si guardino quelle donne che si accampano sulla pagina con tutta l’imponenza della loro plastica espressività. Se non ci fossero mancherebbe l’elemento portante del quadro, l’indispensabile dialettico intorno al quale tutto il resto ruota: un esile paesaggio, una striscia di cielo, una striscia di mare, una plaga di spiaggia: un nulla, o quasi, appena movimentato dal segno verticale dell’albero di una barca o dall’obliquo disporsi dei pini marini.
Ma ecco, prepotente, stagliarsi una linea introversa, in sé conclusa, e la massa che ne rimane definita addensarsi di un lacerante rosso e di un cupo nero o di un azzurro contrito. Allora è come se corresse per le cose un brivido, come se quelle presenze contenessero nel loro arcuarsi tutto il dolore del mondo e questo fluisse per ogni fibra a rappresentarsi. Nell’atmosfera ferma, attonita, dove neppure i gabbiani disegnano il ricordo del vento di Fazzini e i corpi sono più prossimi alla rudimentalità del sasso di Arturo Martini, il segno fatto immagine di donna racconta una storia che è dell’essere e dell’esistere in una condizione in cui i ruoli, enormemente impari, sono accettati. Il mare, così tenue, così esiguo, si fa drammatico, ostile. Ostile è anche la terra nella sua estrema resa verso il mare. La linea che demarca la battigia è un «finis terrae» ove si svolge la perenne contesa del finito e dell’infinito, della conoscenza e del mistero. C’è una disperazione e un’attesa in quelle presenze senza volto; ma s’immagina che un discorso avvenga in quel silenzio e che per vie misteriose corrano verità più alte dell’umano sentire. Certo il momento è meditato, composto, non oppresso e non opprimente. L’arte ha trovato l’unità compositiva.
Questo esito non casuale si intravede come risultato di un lungo tormento, di una meditata assuefazione con luoghi e con vicende che finiscono di entrare nella mente e cercare una ragione. II pregio di Mario Lupo (e questo dà la misura dell’artista) è di essersi fermato al momento intuitivo e di non essersi concesso al racconto. Un accadimento, certo, si è svolto, o sta svolgendosi, o si svolgerà. Ma quei sapori di scaglie che emanano dalla sua pittura e quei toni variegati, ora addensati e ora dispersi, dicono che la materia è in mutamento e che il mutamento è dolore e che il dolore è del mondo.
In fondo lo stesso dicono i versi di Leopardi.
Sempre più va evidenziandosi la stretta relazione emozionale che lega le opere di Mario Lupo; sempre più va componendosi quella grande, unica opera vita che rifletta e condensi i contenuti che via via si sono venuti precisando attraverso un indefinito processo di rimandi: una summa, si potrebbe dirla, di momenti-verità che tendano a costituirsi in paradigmi della sua pittura con dentro un pensiero che ne definisce l’aspetto teleologico.
Il fatto è che ogni quadro nasce in una zona di incandescente sincerità ove la possibilità di barare è preclusa dall’amore per il proprio lavoro e dall’intima intelligenza del proprio messaggio.
Luoghi deputati sono quelli del mare e della sua gente: il mondo spirituale e poetico più nativo. Ma la realtà pittorica che vi viene trasposta è sistematicamente trasgredita dall’interiorità dell’uomo che vi fonde emozioni e sgomenti così che la vicenda che vi si instaura si costituisce come metabolismo espressivo del vissuto.
Non, dunque, di rappresentazione di eventi e situazioni in sé si tratta, ma di proiezione, in uno spazio strutturalmente correlato, del loro equivalente ideativo e commozionale, con una polivalenza che consente la ri-creazione dell’opera in funzione della particolare sintonia del fruitore.
In codesta globalità di partecipazione, alla quale concorre in sommo grado la materia pittorica scabra, stratificata, addensata, commista, l’immagine trasmette il proprio intendimento mediante il simbolismo spontaneo delle forme.
Il repertorio immaginifico di Lupo si costituisce così come linguaggio ove ogni elemento che entri a far parte rivela una carica di semanticità sorgiva che gli consente di assurgere a ruolo primario.
Tutto il suo universo è dentro un breve paesaggio; ma è quanto a lui basta per conoscervi il mondo e per trascrivervi i segni della sofferenza e della speranza.
Può essere un luogo di campi fioriti o di pezzate colline ove il pittore celebra il senso occulto della divinità della natura; ma è più spesso un angolo di spiaggia, con una striscia di mare, i gabbiani nel cielo, i pini marini, una barca con l’albero.
In codesto sito di solitudine, lontano dalle perverse deviazioni degli uomini e dalle orrende contese che insanguinano la terra, Lupo rappresenta la più violenta contestazione della torbida, cieca civiltà nostra e delle lotte di potere che vi si consumano, scegliendo consapevolmente di farvi svolgere in assoluto il dramma dell’essere e dell’esistere.
Il ruolo emblematico viene affidato ad una figura di donna (donna in attesa) espressivamente risolta: grandi mani, i volumi del corpo spartiti tra testa, busto e bacino, masse cromatiche ben distinte tenute da un segno introverso, in sé concluso.
Quella figura arcuata, cifra dolorante nel suo viluppo contrito, si fa carico di domande esistenziali enormi ed irrisolte che si dilatano nell’aria a perdita d’occhio.
Dovrebbe essere nella povera vita istintuale e precaria della gente di mare il momento dell’attesa in cui si scruta l’orizzonte per vedervi spuntare il segno esiguo dei pescatori in arrivo; invece vi si instaura una temperie di sgomento che travalica i termini brevi della pura e semplice storia per iscrivervi lo svolgimento dell’insoluta contesa del finito e dell’infinito, della conoscenza e del mistero.
La lettura dell’opera diventa a quel punto naturalmente introspettiva e la figuratività vi assolve, come meglio non potrebbe, la funzione di rendere coincidente l’universo visuale con quello segnico, le essenze con le significanze.
La donna in attesa vale quale simbolo e quale metafora (sotto il visibile e l’afferrabile si cela l’invisibile e l’inafferrabile) e l’atmosfera di sospeso evento che corre per le cose rivela un senso di provvisorietà che sfalda l’arroganza delle umane certezze.
Il tempo vi è bloccato in un’aura di folgorazione e di stupore; l’essere, inchiodato alla sua condizione di sofferenze e di dolore.
Lupo ha vissuto questo periodo della sua pittura sinceramente e a lungo. Lo vive tuttora, ma con soluzioni diverse. Il patrimonio di un artista consente di superare certe forme di impasse; e l’arte serve, d’altronde, per aprire spiragli esplicativi che illuminino aspetti prima rimasti in ombra.
Già precedentemente, in alcuni quadri di Lupo, c’è la presenza discreta della struttura verticale dell’albero, talvolta isolata, altre volte inserita nell’effimera macchia di un boschetto di riva.
Nell’economia generale dell’opera sembra un segno superfluo ma, a rimuoverlo, l’equilibrio compositivo ne rimane compromesso.
È una forma spontanea che va imponendosi inavvertitamente, non si sa come né perché; finché l’artista non incontra gli olivastri di Torre Mileto. È allora che prende coscienza in lui l’insorgenza di un’evoluzione di linguaggio, peraltro già in atto, rinvenendone gli elementi necessari nel suo stesso repertorio.
Il pittore ne viene totalmente preso; ritrova una gestualità più ampia e più fervida che lo porta a scoprire aspetti inusitati. L’olivastro si fa gigante, nel bel mezzo della tela; con un effetto di grandiosità impressionante. Farsi gigante, poi, è solo un modo di dire, riferito ad una resa iconica dove l’olivastro risulta quasi trasposto nella sua dimensione naturale con un effetto di incombenza che è di per se stesso un valore.
Il tronco ha un andamento distorto, tormentato, con un’evolvenza in diagonale che ne fa un essere in fuga scampato appena ad un naufragio spaventoso, a una mortale minaccia.
La sua drammaticità è nella contorsione, nel suo sviluppo talvolta antropomorfico, nella scabrosità degli anfratti, nel rilievo totemico in cui sembra attestarsi l’unità della materia.
Lupo ne segue i mutamenti, le coercizioni subite, ne magnifica gli aspetti mitici di terrore e di dolore con una resa altamente espressiva del medium pittorico che si ispessisce e si fende per farsi grido; ma soprattutto è attento all’apertura che offre alla sua poetica questo simbolo, innovativo non più sulla via della rassegnazione, bensì della pervicacia.
Il tempo dell’olivastro è un tempo storico, carico di pulsioni e di vicissitudini. La sua conformazione obliqua è la risultante di forze potenti e contrastanti: l’azione della tramontana è come dire la sofferenza che storce e devìa e altera e tende a nullificare ogni cosa; e l’altra, la vincente, la forza pulsante della vita, è nella capacità germinativa irrefrenabile degli aghi e delle foglie che, nel verde intrigo della loro massa, convogliano la speranza dentro uno spazio incorruttibile.
(dal catalogo “L’immaginario del mare” edito dalla Stamperia dell’Arancio in occasione della mostra antologica – San Benedetto del Tronto - 1997)
Quando Mario Lupo avverte il desiderio della pittura si è in un periodo storico, tuttora persistente, di profonda crisi dell’arte, perché motivazioni di natura politica ed estetica ne mettono in discussione la necessità giungendo persino a negarne l’esistenza. Dunque è il momento meno propizio per la nascita di un pittore, che, tuttavia, intende esprimersi proprio con quel mezzo, forse sull’onda lunga del fascino che irradiano sempre le opere tramandate dalla storia, forse davvero sospinto dall’indistinto fervore del suo spirito artistico che cerca un possibile tramite chiarificatore. Il rischio è, comunque, grande, sia perché la realtà contingente è sempre a ridosso con i suoi condizionamenti, sia perché il cuore pulsante della verità della pittura è nascosto - per dirla con un’immagine cardine del pensiero di Heidegger - nel profondo interno di una foresta raggiungibile soltanto per sentieri interrotti (Holzwege) che possono condurre, però, anche lontano dal luogo dove si pensa di essere diretti e smarrirsi del tutto. Solo l’artista vero possiede il senso infallibile dell’orientamento, ma questo a nessuno è dato saperlo, nemmeno all’artista stesso, che ne prende coscienza poco alla volta senza comunque averne piena certezza se non quando è prossimo al raggiungimento dell’esito. Questo senso infallibile deve essere stato avvertito se ha un autorevole riscontro nella riflessione di Van Gogh che Mario Lupo ha trascritto a caratteri cubitali su di un muro del suo studio: “Se oggi non valgo nulla non varrò nulla nemmeno domani. Ma se domani scoprono in me dei valori, vuol dire che li posseggo anche oggi perché il grano è grano anche se la gente dapprima lo prende per erba”.
Lupo ha trascritto la frase certamente per ripagarsi delle tante delusioni patite nell’iniziale fraintendimento e dunque per farsi coraggio; e per confermarsi nei suoi propositi, malgrado i venti contrari, perché le circostanze della sua vita hanno voluto che egli pervenisse all’arte per vie traverse e piuttosto disagevoli che avrebbero steso al tappeto chissà quanti altri. Lui, invece, ha resistito, incalzato dall’impegno morale di perseguire, comunque, il disegno grandioso che si portava dentro. “Vedevo nella pittura la cosa più bella di questo mondo, la realizzazione, dei miei sogni, la libertà di potermi esprimere a mio modo”: dice in un libro-rivelazione che nessuno dei suoi estimatori si dovrebbe negare di leggere, tanto è bello.
“La libertà di potermi esprimere a mio modo” sembra agevole cosa. Ma qual è questo modo se risulta così difficile da capire appena s’inizia a mettere mano alla sua realizzazione?
Viene spontaneo allora, studiare, tra molte perplessità, il modo degli altri, di quelli che sono riusciti, magari di quelli molto grandi, per mettersi sulla loro scia, per carpire loro il segreto. Ma è come brancolare nel buio, si è più smarriti che mai. Perché le copie, dopo il primo entusiasmo, risultano quasi sempre sterili e inducono generalmente a remore e impedimenti. E poi, che cosa spinge a farlo, la velleità o il talento? La domanda il più delle volte rimane elusa e i propositi si stemperano fino a perdersi nel nulla.
In bilico rimane chi si sforza di resistere.
Forse a salvare Lupo è stata la sua naturalezza; oppure il suo modo di essere sempre disponibile ai grandi eventi; o la sapienza maturata nel suo lungo tirocinio di infanzia ed adolescenza fattive; o l’essersi sempre provato nei mestieri più vari ed avervi riscontrato, ogni volta, la felicità del fare e del formare.
Certo, l’incontro con Bruno Fanesi è di quelli che lasciano il segno, intanto perché con lui Lupo esce dalla condizione solipsistica dell’imitazione, dove non è facile cogliere il processo dinamico del modello, il più delle volte una riproduzione. E poi perché con Fanesi è come andare a bottega, col maestro di una volta, lui che consiglia, suggerisce, corregge, offre stimoli e spunti generatori di sapienza pittorica ulteriore. Certamente occorre pure tenere in debito conto la volontà di imparare di un così fervido allievo che vede aprirsi - finalmente! - quel mondo che appariva imperscrutabile ed ermetico, entro il quale muovere i primi passi proficui del processo di formazione dell'opera.
A scorrere il repertorio dei suoi dipinti, negli anni di questo sodalizio, si vede come egli cresca velocemente in capacità costruttiva e nel concepire per forme. E piace immaginarlo, ora, ad esito conseguito, come chi aspettava i segni della grazia, magari senza fiducia ancora nel merito che quel che faceva gli avrebbe procurato; e tuttavia continuare il lavoro, sapendo che solo lavorando poteva intravvedere l’avvento dei segni che attendeva. Questa è la grande lezione che Lupo vi matura, lui che si è sempre lasciato guidare da un alto senso morale nelle sue azioni: che non c’è conquista senza sforzo di volontà, non c’è dono senza merito; che solo l’applicazione continua consente la speranza di potersi permettere in pittura la libertà di esprimersi a “modo proprio”; e che il “modo proprio” nasce, appunto, dalla scioltezza e dall’attitudine operativa conquistate sul campo, che consentono al talento di liberarsi dei tanti lacci che lo costringono.
Questo tempo Lupo lo impiega diligentemente e proficuamente per la messa a punto di alcune esperienze fondamentali di manipolazione della materia pittorica; e per munirsi, ancor più, di quella memoria operativa, fatta dei modi diversi di affrontare i problemi compositivi, di interagirli e introiettarli in un accumulo di fattività che arricchisce le sue capacità e determina le sue scelte.
Si notano, così, nel medesimo spazio temporale, dipinti dai colori teneri, rosati, cilestrini, giallini, di dichiarata fattura chiarista; e dipinti di pasta spessa e di colori intensi che denotano interesse per ricerche pittoriche che avvengono altrove.
Se i primi sono consueti perché appartenenti a quella scuola che ha nell’area marchigiana, in particolare in Ancona, i luoghi privilegiati di produzione, i secondi guardano a quella realtà “altra” delle forme visive che ha indagato Nicolas de Stäel e che proprio in quegli anni è oggetto di attenzione espositiva in Italia.
Il fatto che Lupo vi si soffermi, centrando anche opere di notevole fattura, è indicativo sia di un suo desiderio di allargare il suo orizzonte verso quanto va succedendo in fatto d’arte in altri luoghi per cogliervi qualcosa che gli possa risultare congeniale, sia del superamento del chiarismo locale, propendendo, piuttosto, verso l’impiego di una materia più ricca e più espressiva. Questo, nel mentre va scoprendo come il “modo proprio” di dipingere non si appaghi più dell’esercizio compositivo degli oggetti, ma abbia radici profonde nella sofferta pregnanza esistenziale che lo tiene in tensione.
Un primo esempio lo si riscontra nel Pincheltonio del 1958, un pezzo di bravura di struttura spaziale entro cui spicca la figura disperante di un manichino, frastornato nella spezzettatura delle linee di definizione, alienato sullo sfondo di quinte cadenzate nel vuoto e nello spirito dell’essenza. Non è un caso che l’opera rimarchi la data di morte della mamma del pittore. L’annotazione, anzi, vuole consolidare lo stretto rapporto tra natura del quadro e natura dell’autore in quel riflettersi, come in uno specchio, nell’altro sé che è la pittura, quando più acuta si fa la sua disperazione e più impellente il bisogno di conforto.
Questo carattere, da questo momento, risulterà una costante.
In corrispondenza degli esiti più alti dell’arte sua, od anche quando prende ad articolarsi un nuovo ciclo, c’è sempre un evento commozionale ad agirlo in modo dichiarato nell’opera: una memoria sopita che d’improvviso si risveglia, la drammaticità colta nel cuore profondo delle cose, il male di esistere, la tragica fine della vita.
È nella natura simpatetica di Lupo, in quel suo modo di assumersi ad aedo per raccogliere, nella sua azione partecipativa, i tanti frantumi esistenziali destinati altrimenti alla dispersione e alla perdita. L’arte non solo non ne viene diminuita, ma ne risulta esaltata, perché la personalità dell’artista è di quella natura e, dunque, non può certo essere messa a freno nel momento in cui deve rivelarsi in tutta la sua potenza. L’energia formante deriva proprio da quel suo modo di essere e, perciò, tutta la sua opera non può che esserne intrisa.
Chi non coglie questo punto essenziale e rileva che l’arte debba solo essere arte e null’altro, si nega alla comprensione dell’opera di Lupo, che è eminentemente etica ed epica e, dunque, solo in questo modo si rivela anche nei suoi caratteri più propriamente specifici.
Questa considerazione comincia ad essere evidente in alcuni paesaggi colti nella sintesi di terra e di cielo, o di cielo e di mare, con in mezzo l’intrigo ortogonale di casupole strette tra loro ma come perse nel tempo. Gli elementi compositivi, differenziati e in equilibrio, sono reciprocamente condizionati da un riflesso tonale che fluidifica i rapporti interni procurandovi un effetto di dissolvenza. Non c’è presenza umana evidente; ma proprio in quell’assenza vi sono le tracce della sua inquietudine, perché chi guarda quelle casupole povere di spiaggia o di prima collina, colte nella bruma di un colore dissolto, è come preso nel cerchio ineludibile della rassegnazione, perché in esse prevale il silenzio e il non attendersi nulla di chi le abita, con la coscienza, in ogni caso, che in altri luoghi, chissà dove, pulsa e tumultua la vita con frenesia. L’opera vive di uno strano rapporto tra assenza e presenza che viene giocato nella struttura psichica del congegno visivo, che tende piuttosto ad alludere che a mostrare. Quel che si vede è ben povera cosa, diminuita, oltretutto, dall’uso chiarista del colore.
Ma la quasi assenza di quel che c’è richiama la presenza di quel che non c’è. Incomincia così a delinearsi quel complesso fenomeno di narrazione, fatto di immagini date e immagini suggerite, attraverso cui tende a definirsi l’assetto iconico.
Nei quadri che seguono si manifesta più apertamente questa visione sofferta della vita, con l’emergere di figure colte in quel mondo di mare in cui si è svolta e continua a svolgersi l’esistenza del pittore.
Perché - occorre dirlo - Mario Lupo è, a quella data, un comandante di mare e la pittura occupa uno spazio di tempo limitato dall’impegno della navigazione. La pittura come esecuzione, beninteso! Perché la pittura come forma mentis occupa, invece, ogni suo momento. I suoi quadri sono, anzi, immaginati proprio navigando.
Il mare somiglia, dunque, per Lupo, allo spazio-luogo che Aristotele chiama topos. Ecco perché il paesaggio si determina e si precisa nel sito più prossimo che è la spiaggia, la scena aperta in cui si accampa la raccolta malinconia delle Maschere tristi, già preludio alla più sgomenta figura che vi comparirà da lì a poco.
Intanto vi si alternano fanciulle adagiate sulle ginocchia, come in meditazione o in preghiera; colonie di bimbi con suore dai grandi cappelli bianchi aperti all’aria come ali di gabbiani; carri di nomadi in sosta sulla rena grigia di un mare torbido; e barche tirate a secco e benedizioni del mare.
Non che Lupo segua, ora, soltanto un pedissequo marinaresco dimentico della pittura, perché, anzi, mette a punto diverse opere di notevole invenzione cromatica come i Peperoncini o La mia tavolozza. Ma è che la spiaggia si impone come luogo privilegiato, come mondo poetico sorgivo da cui emergono continue memorie struggenti, tutte legate ad un filo che, mentre va dipanandosi, disegna un universo configurato nella sostanza storica della sua coscienza. Tutto quanto vi succede è viatico per definire una vocazione formativa che si precisa d’opera in opera, al pari di tanti fotogrammi che si innestano l’uno nell’altro, in cerca di un estremo punto caldo, capace di congiungere tutto, di svelare tutto nella sintesi di una forma. Questa forma, di cui si appalesa l’enorme potenziale espressivo, è una figura emblematica di intrinseca contestualità che crea nessi dialogici, chiama a sé ogni possibile consonanza.
Dapprima è una donna bloccata di spalle sulla linea del mare, in piedi a scrutare, al largo, l’arrivo delle barche. Poi si adagia e si incurva, posseduta da un presentimento; o anche si contrappone ad un gabbiano, che appare come un’annunciazione. Questa donna che attende non è, però, visione distaccata, oggettiva, rilevata e rappresentata nella mera apparenza di figura nel paesaggio.
Il pittore che la trae non è sulla terra, alle sue spalle; è il navigatore, che in quell’attesa trova il consolidamento della sua vita.
C’è, dunque, un rapporto biunivoco tra chi attende e chi è atteso, fatto di attrazione affettiva, che si manifesta nella tensione tra la polarità dell’assenza e quella della presenza nei due soggetti, che non possono scorgersi, ma che si possono supporre dai loro opposti punti di vista. A questo si accompagna la diversa natura della terra e del mare, la prima solida, alma mater che protegge e conforta; il secondo, insidioso e corrivo nelle sue ire. Alla tensione si aggiunge, quindi, tensione. E a rilevarlo è uno che sul mare spende la vita e ha modo di riflettere nelle lunghe notti di navigazione. La donna è, dunque, proiezione di un’ansia che è del navigante; e il punto di riferimento del quadro non è nel suo interno ma fuori, sul mare, al largo, in quell’assenza che la presenza della donna fortemente richiama.
Ma quando l’affondamento del “Rodi” e del “Pinguino” rende, a San Benedetto del Tronto, più cruda la realtà della morte per naufragio, l’attesa e la speranza vengono meno anche nello spirito del pittore, sempre partecipe degli eventi della comunità alla quale appartiene; e la figura della donna sulla spiaggia diventa una cifra dolorante nel suo viluppo contrito e si fa carico di domande esistenziali enormi ed irrisolte che dilatano l’aria e vi fermano il tempo. La scena perde ogni traccia di caratterizzazione aneddotica, diventa stringata, essenziale, come in un gruppo marmoreo: grandi mani e piedi, volumi spartiti tra testa, busto e bacino, le masse cromatiche tenute da un segno introverso in sé concluso. Donna senza volto, fu rilevato, ed a ragione, perché il volto avrebbe allentato in dettaglio la forte tensione di una forma circonflessa in cui si svolge l’insoluta contesa della conoscenza e del mistero, del finito e dell’infinito.
Con la Donna in attesa, Lupo matura la coscienza di verità della pittura, perché la vita, di cui essa si alimenta, convoglia l'umanità dell’artista nell’atto conclusivo del suo stile e ne fa un tutt’uno inscindibile di forma e contenuto. Da qui prende l’avvio quella lunga e fertile stagione di raggiunta maturità, dispiegata nel concepimento dell’astrazione come elaborazione di spazi mentali, di luoghi dell’anima, in cui l’opera si vivifica nell’inesauribile gioco di interconnessione tra colore, segno e materia, intesa, quest’ultima, non solo come pigmento o supporto, ma come l’insieme dei presupposti iconici, culturali e poetici che vi si impiegano.
È il raggiungimento di una ragguardevole altezza della pittura che la critica avveduta coglie e registra, attenta ai nuovi esiti che essa promette.
Con la Donna in attesa inerisce un complesso mondo di ulteriori apporti che meglio definiscono l’ambito dell’immediata riconoscibilità. Si vuol dire dei pini marini, risicati per vento e per salsedine; dei gabbiani che volano di voli inesausti e frenetici; dei cieli accecati di fiamme di sole; dei venti che sobillano acque impetuose.
Un apparato complementare che, tuttavia, va caricandosi di significati propri sotto l’occhio attento e ricettivo dell’artista che valuta, saggia, introietta e riflette. Un’interazione che suggerisce ulteriori esiti, alcuni più dichiarati - le burrasche, i gabbiani - altri tenuti su toni bassi, discreti. Temi che non si esauriscono, sostenuti come sono da continuo fermento. Ma altri sono accantonati per occasioni sporadiche, come quegli alberi che compaiono ischeletriti negli anni Sessanta; che diventano teneri e schietti nei filari di pioppi della Primavera padana; per ritornare ancor più negletti nel frastornato diramare degli Ultimi pini. Un motivo che traversa tutta la pittura di Lupo ma che non sembra avere una propria autonomia visiva.
E invece proprio da loro prende a costituirsi un’altra stagione importante come quella degli Olivastri di Torre Mileto, appena vi si ravvisa il senso del dramma e del dolore.
Torre Mileto è il vivo contesto di un’esperienza indimenticabile di environment su cui occorre soffermarsi, per capire le evoluzioni che avverranno, in seguito, nella ricerca del pittore.
A Torre Mileto Lupo è sorpreso da una strana foresta di olivastri giganti, intruppati nella traversa andatura dei tronchi contorti. Tronchi che sembrano calcinati esseri antropomorfi, da cui, però, spuntano ramoscelli e foglie sospinti nell’intrigo volvente di un indomabile desiderio di vita. La contorsione esasperata è data dal vento di traversìa che soffia, impetuoso e continuo, sulla costa per lunghi mesi.
È, dunque, ancora un dramma del mare che vi si intravede, diverso nelle sembianze da quello della donna in attesa, ma equivalente nello spirito. Solamente guardando, il pittore immagina già le sue tele. Ma è più sollecitato a considerare il valore di relazione tra l’opera d’arte che ne può trarre e quell’evento della natura. Pensa che, come nell’opera d’arte lo spirito è nella materia compositiva in un rapporto inseparabile di intrinsecità, così in quegli olivastri spirito e corpo si identificano nella loro realtà di presenza fisica incombente. Ad accomunarli è il carattere di pura esistenza, colto nel mistero delle specifiche forme. Lupo parte, con quel pensiero intrigante, e a Torre Mileto torna a distanza di tempo, sospinto dal desiderio di una verifica. E gli olivastri lo accolgono e lo trascinano nell’impeto della loro irrefrenabile rivelazione: che si traduce in una serie di guazzi e da questi nei quadri di un lungo impegno di lavoro. Quadri grandi, in cui resistono le sensazioni del pittore: il suo guardare, il suo esserci in mezzo, il suo spaziare correlato tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore. Quadri che vogliono essere proprio e soltanto la trasposizione dell’evento, così come si è manifestato nel muto eppure eloquente linguaggio di quelle forme, perché giunga al pubblico della sua pittura come un dono. Lupo, anzi, nel suo entusiasmo, fa di più. Programma sul luogo una mostra e vi invita persone da tutt’Italia ed anche dall’estero - una vera e propria performance - perché spettatori così diversi, e magari sconosciuti tra loro, si ritrovino a scoprire con lui il carattere sinestetico del percepire, sentire, stimolare che nasce in quel rapporto biunivoco di natura e pittura. Il risultato è l’insorgenza di una nuova idea. Perché in quella gente che vaga tra alberi e quadri, sorpresa e meravigliata; in quel toccare, perlustrare, girare attorno in cui si esplica la ritrovata mondanità: l’artista intuisce la caduta della barriera tra pittura e scultura e scopre il sogno delle forme plastiche così profondamente concretizzate nel suo lungo e più antico operare. Passerà solo un breve tempo e quel sogno prenderà corpo in una prima serie di sculture di gabbiani.
Intanto la pittura elabora il tema delle nuove immagini.
Dalla trasposizione delle prime tele in cui si considera come valore l’incombenza dell’albero sulla pagina pittorica quasi nella sua naturale dimensione, si raggiunge una più libera invenzione delle forme e della materia cromatica, così come scaturisce nel processo produttivo di ideazione e di esecuzione. Il dato referenziale si allontana dopo essersi maturato in memoria operativa, e su quella memoria si costruisce l’opera nel suo intrinseco ordinamento di organicità. L’olivastro entra così a pieno titolo nel repertorio dei temi di Lupo come un personaggio che traversa la tela nella sua dolorante volitività. Solo ed obliquo nella tensione di fuga, esibisce il suo tormento e le sue ferite come apoteosi del vivere sulla disperazione. Se la donna in attesa è il segno drammatico dell’immanenza, l’olivastro ne è quello della trascendenza. Trascendenza nella forma compositiva di diagonalità; ma trascendenza anche nel vento che si intuisce - come dice Italo Mancini - in “quell’altro incontenibile che il vento ha il potere straordinario di evocare”: il vento dello Spirito Divino. Spirito che, d’improvviso, si manifesta più esplicitamente nel vigore del successivo ciclo del Cristo di tutti, le cui immagini si caratterizzano per uno sconvolgimento generale dell’apparato iconografico come se lo scuotesse appunto un vento scompaginatore.
Che cosa metta in moto questo meccanismo sintagmatico, sino a quel momento sconosciuto, è un mistero che l’artista non spiega. Così come non spiega quell’improvviso bisogno di ricorrere alla Passione del Cristo nella specie di una travolgente sacra rappresentazione. Occasioni immediate non se ne conoscono, se si esclude quell’ansia tutta cattolica che attraversa da cima a fondo l’opera di Lupo. D’altronde non è raro il caso che nell’arte - e non solo nell’arte - si riveli quel destino dell’uomo di fare cose di cui ignora le ragioni; e dunque occorre arrendersi a questa considerazione. Certo è che nel Cristo di tutti c’è una tensione inusitata, una forza sorgiva, un rompere consolidate visioni, ricomporle in interazione continua. I simboli della sua pittura sono tutti presenti, come accorsi ad una chiamata urgente; e subito sono assunti in un vortice circostanziale che li fa partecipi dell’avvenimento. Sulla croce c’è la donna, proprio quella dell’attesa, oppure c’è il gabbiano, o un Cristo scomposto e deturpato come non si è mai visto nella pittura, nemmeno in quella di Viani.
Le immagini lasciano persino supporre una disparità di veduta tra un’interpretazione così arditamente espressiva del Verbo fatto carne, colto nella laidezza del martirio, e una visione in cui il possesso della verità è consegnato alla fede attraverso la sua identificazione con la dottrina della Chiesa. Ma Lupo, dissipando quell’abbellimento che si presenta, di solito, come naturale ed è, invece, l’abituale di un’abitudine che ha dimenticato il disabituale da cui prende origine, si pone all’interno degli eventi, e, rompendo la cristallizzazione degli schemi, vi scava la profonda verità. Ricrea così un mondo spirituale di corale partecipazione, lontano dalla staticità dei miti e dei riti, scoprendo lo scempio dei martiri che in origine aveva sorpreso gli uomini e riempito la loro mente di meraviglia.
Lo spirito di queste opere è anche riproposto interamente nel libro intitolato appunto Il Cristo di tutti edito in occasione della mostra al Centro San Fedele di Milano, con poesie, stupende, di David Maria Turoldo, il grande poeta mistico alla cui memoria corre turbato il pensiero dello scrivente.
Nel libro sono riprodotte le quarantaquattro tavole in cui si esplica l’intero ciclo cristologico, accompagnate da testi importanti di Italo Mancini, Carlo Bo e Valerio Volpini, con argomentazioni puntuali e commosse che danno in più il senso di come l’opera sia stata condotta nella totale corrispondenza tra interpretatio ex re ed interpretatio ex verbo, non certo nel proposito di un pensiero anteriore, ma nella consustanzialità creativa dell’arte che coglie la coincidenza tra umiliazione e culmine della gloria come la verità stessa che si esprime nella Croce di Cristo.
L’occasione della grande scultura si presenta con la commissione del Monumento al gabbiano Jonathan Livingston da collocare sul molo di San Benedetto del Tronto.
Il gabbiano è immagine appartenente alla pittura di Lupo. Ma ritrovarlo allegorizzato, nel racconto di Richard Bach, in quell’unico componente che si distacca dal gruppo di appartenenza per innalzarsi a vivere un’avventura vertiginosa, è riconoscervi la stessa vicenda del pittore.
Nel libro Racconto la vita, racconto la pittura ci sono pagine di ariosa bellezza sulla gestazione dell’opera e sulla felice intuizione del cerchio che artisticamente la risolve: “Se noi ci giriamo attorno, facciamo un cerchio; se guardiamo l’orizzonte è un cerchio; il mondo è un cerchio; la perfezione è un cerchio; il cerchio contiene tutto”.
Il cerchio è l’itinerario del partire e del ritornare, ma è, soprattutto, concetto di spazio aperto al vigore del proprio anelito. È puro gesto, essenziale, pulito, un corpo senza corpo, l’idea colta nell’aria.
“Non è sempre necessario che il vero prenda corpo”; dice Goethe: “è già sufficiente che aleggi nei dintorni come spirito e provochi una sorta di accordo come quando il suono delle campane si distende amico nell’ atmosfera apportatrice di pace”.
Il monumento, nel luogo della sua collocazione, realizza l’avvento di questa verità. Ad esso confluiscono tutte le ragioni e tutte le sollecitazioni che lo hanno determinato. Vi si parla di voli abbaglianti, di balzi della mente, di materia trasfigurata, di pensieri che si accendono. Di solitudine, anche; ma di quella fervida e fattiva: “Allora io, pur sentendo l'enormità del peso che gravava su di me con questo monumento, decisi e capii che avrei dovuto affrontare tutto da solo e così ho fatto”.
Tutto questo la scultura dice. E dice ancora della solidarietà dell’ambiente che la contiene, del suo ergersi naturalmente placata nella perfezione compositiva; della risolutezza nell’affrontare le bufere che la investono sull’estrema punta del molo; dello splendore dell’acciaio che rimanda i riflessi del sole. Del bello, insomma, dice, che dimora nella forma per la luce che l’artista vi ha acceso e che continuamente si alimenta. Ancora il gabbiano simboleggia la morte del generale Enrico R. Galvaligi nel monumento a lui dedicato nel parco comunale di Tortoreto Lido. Lupo l’ha concepito nello spazio di un grande prato verde rigorosamente coordinato con la struttura urbanistica circostante proprio come dice Martin Heidegger: “Un porre in opera incorporante luoghi e con questi un aprire di contrade per un possibile abitare di uomini per un possibile dimorare delle cose che li attorniano e li riguardano”.
Il monumento è, insieme, semplice e maestoso: un gabbiano ad un livello superiore sul punto di spiccare il volo; ed un gabbiano colpito a morte sulla pista più bassa della sua caduta obliqua, con le ali nell’aprimento residuo del non essere ancora totalmente giacente. L’adagiarsi, che include l’abbrivo terminale del movimento, e il contrapporsi di volo e di caduta, sono consecuzioni che svelano la natura della tragedia, così che l’opera si fa voce che parla di ciò che è grande, di ciò che vale, di ciò che è sacro.
E intorno lo spazio lo ripete nella solennità del silenzio.
(dal libro “Il Cristo di tutti” - 1988)
Tre sono i temi emergenti, e insonnemente ricorrenti, sempre gli stessi mai i medesimi, nella pittura di Mario Lupo, per me da quando l’ho conosciuto (e la sua conoscenza è un dono) Maestro Lupo.
E non si tratta di temi puramente raffigurativi (anche se grande è la sua vena nel ricco raffigurare), che poi vorrebbe dire caducamente naturalistici, ma investiti dalla dignità del simbolo. Temi simbolici che terrei accuratamente distinti dalla metafora. Questa è soltanto un’allusione, quella una proposta di significato nel modo che è proprio del dire della pittura, il modo del raffigurare, che coglie la parola nel suo realizzarsi originario, che è quello del risuonar per immagine, fonica nel suo minimum, geroglifico dell'idea nel suo maximum. Quello di cui è magistralmente dotato Lupo. Nella metafora si fa centro su un grumo di stoffa sensibile per alludere o accennare a valori di oltrechiusura, invece nel simbolo si parte proprio da questi valori o dimensioni spirituali o esistenziali per giungere alla loro risonanza dentro le forme che il senso può percepire e dominare. Quando dico allora che i temi di Lupo sono simboli e non metafore intendo dire molto per il suo messaggio catartico e si potrebbe anche dire salvifico, nel segno basso del sogno diurno e dell’utopia, ma anche in quello alto, o altissimo, della speranza. Puoi dunque ricercare in ognuno di questi tre temi la simbolicità, e sarà un’ermeneutica aperta e perciò stesso inconclusa, e con la simbolicità la linea della speranza. Il primo di questi temi simbolici ha le fattezze umane, è quello della donna, quasi sempre delle donne accovacciate, quasi imbussolate, sole e incomunicanti, in attesa su rive di sterminati mari, che qualcuno può sempre solcare e venire a trovarti (a salvarti?). Qualcosa di tragico, ma anche di altamente patetico per questa femminilità, per questa pazienza, per questa accettazione, per questa attesa, per questo far cenno che qualcuno può arrivare, qualcuno può incontrarti, e la solitudine può essere soddisfatta. Sarà difficile che tu abbia amici nel senso associativo del termine, ma potresti avere compagni di viaggio, partecipi della tua stessa tragicità, di essere e di non essere solo. Il secondo tema simbolico non è più di natura umana, ma di natura botanica, sia pure antropomorfizzata e non poteva essere altrimenti, portando anch’esso nel suo cuore l’intenzione simbolica.
Parlo di un’altra solitudine, meno evidente nella sua dimensione di apertura, quella di alberi strapazzati dal vento, ancora in arrivo da alti e non placati mari, e le cui chiome sono violentemente piegate in una tensione innaturale e sofferta. Credo che anche in questo caso, se conta in prima battuta l’immagine dell’albero piegato e violentato nella sua chioma, talora anche diradata e mortificata, come ne ho visti tanti lungo i litorali più violenti, come nelle coste della Sardegna occidentale, ma anche nelle coste di Lupo, che talora presentano il dannunziano “Adriatico selvaggio”; se conta tutto questo, e alimenta la fantasia in modo non comune, soprattutto conta quel vento, quell’altro incontenibile, che il vento ha il potere straordinario di evocare, tanto che le pagine evangeliche e il messaggio di Gesù ne hanno fatto il simbolo dello Spirito, sempre legato a una certa violenza, il manzoniano Iddio “che atterra e suscita, che affanna e che consola”.
Il terzo dei temi simbolici di Mario Lupo è una conquista più recente, legata a una realizzazione favolosa e che starà nel tempo e negli spazi come stanno le pietre e i blocchi di cemento nelle dighe foranee dei porti. Parlo del tema realizzato in un simbolo bestiario, secondo la migliore tradizione filosofica e teologica, anche se del tutto inedito, se non fosse per la realizzazione americana di Jonathan, parlo del gabbiano, parlo del monumento al gabbiano di San Benedetto del Tronto, che solo una fede e un coraggio esemplari e sublimi, come quelli di cui è animato Lupo, potevano realizzare sfidando l’ovvio, il banale, e anche l’insensato e il cattivo, quasi a ridare una nuova versione alla dialettica del gabbiano, audace e ubbriaco di vertigine alta di fronte alle bassure satolle del branco. Se Lupo legge queste pagine sa a cosa intendo alludere. Io, quando vidi in una fresca e pulita mattina di sole decembrino questo straordinariamente architettonico monumento, stampato con proporzione sublime tra cielo e mare e terra lavorata del posto ho sentito non solo il segno dell’arte di grande tenuta ma soprattutto la carica salvifica che Lupo affida a questo suo tema-simbolo, nella difficile armonizzazione tra l’avventura ascensionale solitaria (che potrebbe essere un limite elitaristico del gabbiano americano) e la necessità, direi la cogenza assiologica, che Lupo, uomo mite e dalla tenda aperta ai quattro venti, come quella di Abramo, sente in modo non programmato, ma quasi istintivo, la necessità, dicevo, di partecipare al gruppo, di comunicare ai compagni lo stesso supplemento di luce, la stessa vertigine dell’alto.
Dentro questo contesto di durezza e di quasi martoriata pesantezza, che cerca di ribellarsi in ogni modo alla distretta e all’inchiodamento, sono scoppiati questi “Cristi”, di cui il meno che si possa dire è lo stupore che prende di fronte a una ripetitività sempre rinnovata e sempre rinnovante di fronte a un tema unico e difficile, come quello della croce. Non conosco né teorici di mistica né esperti della theologia crucis che abbiano mai realizzato tante variazioni del tema.
O Lupo, o Lupo, ma che anima ci hai, che sentimento possiedi, che rigoglio d’amore ti cresce dentro per avere realizzato questa litania, esaltante conturbante ribollente inquietante, di “Cristi”?
Come ti è stato possibile vederlo ripetersi senza fine e nei modi più impensati, che in talune variazioni si dovrebbe dire mai pensate, come quando hai realizzato un’ultima Cena con sole donne, le donne già dette del simbolo che solum è tuo?
L’attento e un po’ travolto lettore di queste carte non sfugge alla morsa di una alternativa che vorrei esprimere con il riferimento a due grandi scrittori russi, ai due più grandi scrittori russi. Essi esprimono “la terribile differenza” che agita i lettori di fronte ai “Cristi” di Mario Lupo. E ho parlato di alternativa, non di dilemma. Nel dilemma entrambi gli esiti della situazione, qui non logica, ma esistenziale, sono disperati, sono dannati; nell’alternativa, invece, un caso è totalmente diverso dall’altro, e se uno dispera, l’altro può donare la speranza. Lev Tolstoj ha scritto un vangelo, tutto e solo fatto con i testi canonici, cristiano dunque nella lettera, ma intimamente diverso, anticristiano, nello spirito. Il Titano di Jasnaja Poliana ha presunto di alterare Cristo, farlo soltanto precursore del suo annuncio. Il suo grande biografo e interprete, Victor Sklovskij, parla di un Cristo triste, senza risurrezione, come il Cristo nel deserto (1872) di Ivan Kramskòj. E in effetti è un Cristo solo, come le donne di Lupo, ma non è in riva al mare, in attesa, è nel deserto, senza possibilità che qualcuno arrivi, dubbioso, problematico, si direbbe sfiduciato sulla sua identità e sulla sua missione.
Un Cristo che vacilla dentro. Accasciato e quasi assiso nel non senso. Suo e di tutto. Così lo ha visto anche David M. Turoldo, che poi di lì parte per aprire orizzonti di speranza e di gioia quasi cosmiche come in quel biblicissimo e liricissimo cantico delle creature intorno al portento riconciliativo della fede, intitolato Vigilia di Pasqua.
Ma intanto c’è il venerdì santo, non “speculativo” alla Hegel, che tormenta solo il pensiero, ma storico, evento, che tormenta tutto e tutti, fino a far sentire allo stesso Gesù lo spaesamento da Dio.
Anche tu
ateo? ... Fu questa
la tua vera Notte, Signore,
la tua discesa agli Inferi
avanti che ti accogliesse
nel suo ventre la terra.
Ma come poi
avresti potuto dire:
“Nelle tue mani rimetto lo spirito?”
Avresti vinto per un atto di fede
senza speranza?
Pur perduto dentro l’abisso del Nulla
ancora credevi?
Ben altrimenti va con Dostoevskij (è questa l’alternativa).
In pagine indimenticabili de L’Idiota egli commenta la grande tela di Hans Holbein il Giovane che porta il nome di Cristo deposto dalla Croce. Si tratta della descrizione di un aizzamento inconcepibile della natura sull’uomo migliore comparso sulla terra. In questa descrizione non è difficile recuperare momenti della raffigurazione lupiana, che, se pur non condensata in una sola immagine, ne moltiplica quasi per un insistito bisogno di far toccare con mano a quale traguardo di disfacimento può condurre la malizia. Per questo si può bene rileggere le pagine del grande scrittore a commento di Lupo. Ma non come fine a se stesse, quasi per dar corpo a una forma di sadismo, ma per due grandi questioni di pensiero, che anche i “Cristi” di Maestro Lupo presentano. Ecco, sono questi i tre momenti della prosa dostoevskijana. Sono considerazioni del principe Myškin, di una persona in cui si è voluto rappresentare un “uomo totalmente buono”, un ritorno innocente di Gesù. Il quadro rappresentava un uomo appena deposto dalla croce. Mi sembra che i pittori abbiano preso l’abitudine di rappresentare il Cristo, sia sulla croce, sia deposto dalla croce con una sfumatura di bellezza straordinaria in volto e cercano di mantenergli questa bellezza anche fra i più atroci tormenti.
Nel quadro di Rogožin [una copia di Holbein], invece, di questa bellezza non c’era nemmeno un accenno; era in tutto il cadavere di uno che ha sopportato infiniti tormenti ancora prima di venir crocifisso, ferite, torture, percosse delle guardie, percosse del popolaccio, quando portava la croce sulle spalle e vi cadde sotto, e infine il supplizio della croce per almeno sei ore (almeno secondo il mio calcolo). Era, a dire il vero, la faccia di un uomo appena allora deposto dalla croce, cioè conservava in sé qualcosa di vivo, di caldo: nulla in esso aveva avuto il tempo di irrigidirsi, sicché sul volto del morto traspariva perfino la sofferenza, come se la provasse ancora (questo era stato afferrato molto bene dall’artista): quel volto però non era stato risparmiato per nulla; era perfettamente e, in verità, così dev’essere il cadavere di un uomo, chiunque sia, dopo simili tormenti. So che la Chiesa cristiana stabilì ancora nei primi secoli che le sofferenze di Cristo non furono simboliche, ma reali, e che il suo corpo fu sottoposto, sulla croce, alla legge di natura in tutta pienezza.
Nel quadro il volto era atrocemente sfigurato dai colpi tumefatti, con orrende lividure gonfie e sanguinolente, gli occhi sbarrati, le pupille storte; il bianco degli occhi, ampio e scoperto, “brillava di un chiarore vitreo di morte”. Non questi, forse troppo realistici e piuttosto strani per un autore del Cinquecento, i tratti dei “Cristi” di Lupo, che pur dominati dalla piena dei simboli, non sono meno amari, proprio perché toccano anche il livello morale e della dignità e talora sono laidi, dissacrati, e perfino irrispettosi della più intima nudità. Forse la pagina dostoevskijana, che non conosceva gli orrori cui è stato adesso sottoposto l’uomo, andrebbe incupita, per descrivere lo stato disumanato dei “Cristi” di Lupo.
E così sorgono i due problemi. Il primo. Come è potuto avvenire che la natura, lei così buona madre, sia capace di tanta ferocia? “Guardando quel quadro (e questi quadri, aggiungiamo noi, lettori di Lupo), la natura ci si presenta sotto l’aspetto di una enorme belva implacabile e muta, o, per esprimerci in modo più esatto, anche se strano, di un’enorme macchina di nuovissima costruzione, che abbia insensatamente afferrato, stritolato e inghiottito, sorda e insensibile, un essere grande e inestimabile”. Una forza di natura distruttiva e una potenza “stupidamente eterna”.
Il secondo. Come trovare in un Cristo così mal ridotto, dissacrato, il Dio della fede; in un disfacimento così totale (ma già Isaia aveva detto che in Lui non ci sarebbe stata più forma) il germe della risurrezione; in questi detriti di umanità, la grazia del riscatto, della speranza, dell’alleggerimento, della riconciliazione? Dostoevskij ha sentito in modo acuto questa terribile obiezione. E così esprime quello che chiama “curioso e singolare problema”: “se i suoi discepoli, i più importanti fra i suoi futuri apostoli, le donne che lo avevano seguito e stavano presso la croce, e tutti quelli che in lui credevano e l’adoravano, videro realmente quel cadavere (e doveva essere immancabilmente così), in qual modo poterono credere, contemplando quel cadavere, che quel martire sarebbe risorto? Senza volerlo ci vien di pensare che, se la morte è così spaventosa e così forti sono le leggi di natura, come si fa a superarle?”. Un interrogativo questo che Dostoevskij visse tremendamente, e ce lo attestano i Diarii, quando osservava il cadavere di sua moglie Maša composto sul tavolo di casa. I “Cristi” di Mario Lupo non si sottraggono a questa stretta interrogativa, né di fronte alla morte di Cristo, né di fronte alla morte degli altri poveri “cristi”, che sono tutte le persone. Se culture forti sono quelle che prendono sul serio le categorie della distruzione, anche quella di Mario Lupo dev’essere detta una pittura forte, per lo stesso motivo. Ma non per questo disperata (come non fu disperata, Aleša insegna, la soluzione di Dostoevskij), proprio per l’irruzione dei simboli, l’attesa della donna, il vento dello spirito, l’audacia del gabbiano, che sempre si fanno presenti nella raffigurazione dei “Cristi”, come è possibile notare anche da una rapida lettura. E trovi, subito tra le cose più belle, una deposizione dall’andatura quasi classica, se non fosse per un Cristo illividito, giusto agli opposti della Pietà michelangiolesca di San Pietro, ma segnata da Lupo nel modo tutto suo, con i simboli della sua attesa. Un gabbiano anelante che ruota d’intorno, e, a reggere il Cristo, una delle donne dell’attesa, non più raggomitolata, ma apertasi in un grembo sconfinato. E trovi su un’altra croce proprio lui, un gabbiano che sembra felice, al posto del Cristo torturato. Il dolore è raccolto nel grumo nero della donna dell’attesa. Il Cristo, nudo come un efebo, s’è fatto da parte e porge alla donna un mazzo di chiodi come fossero fiori. La catarsi è trasferita nella donna, tutto regge su di lei, il movimento trasversale del gabbiano sembra legarli in un unico destino, che l’ampio giallo del fondo sembra alleggerire in una specie di festa non compiuta, come un tempo quella dei figli dei fiori. E trovi, quasi per un’altalena di motivi, dentro lo sfondo giallo che ora si è incupito, una distesa di gabbiani morti, pure loro deposti dalla croce, che si è fatta gialla e smisuratamente trasversale, quasi una tettoia per un Cristo esso pure deposto dalla croce, ma tutto paziente e mite, come il biblico agnello, stretto com’è sui due lati da sicure e confidenti donne dell’attesa.
È difficile raccontare: le sfumature che il pennello di Lupo cattura e plasma sembrano ribelli alla parola. Qui più che dire bisognerebbe stendersi sopra, come per viverci assieme. E allora senti che fabula de te narratur quando contempli un Cristo esterrefatto che pende tutto sul lato basso della croce fino a sedersi pesante e di controgenio sopra un corpo immenso di un uomo nudo e quasi mostruoso. Ben si vede lo sforzo di Cristo di togliere il suo peso da quel corpo. E io ricordo Isaia (51,23) quando parlando dell’uomo fatto schiavo e in balìa di mani alienate, osserva: “Tu facevi del tuo dorso un suolo, e come una strada per i passanti”. E allora sembra che de te fabula narratur quando Cristo è tutto solo con in mano il suo gran chiodo e non c’era a vegliarlo, discreta e senza invadenza, se non una donna dell’attesa, la più anziana, la più esperta, anche se priva delle forme della maternità, ma solo di quelle di una vestale contadina, esiliata dai templi chiusi, uscita non dai focolari, ma dagli antri della terra, di cui si è fatta custode.
O quando Cristo, ancora solo, se non per la presenza di questo mistero della donna, che sembra uscita dalla porta dell’isba aperta su spazi senza confine a attendere un futuro quale viene custodito nel cuore antico della gente. O quando le croci vengono triplicate e danno il senso di essere senza fine a fare segno di una inarginata crocifissione dell’uomo, che pende insonnemente dalle infinite forche della malvagità fraterna, e non sono soli perché anche Dio pende da quella stessa forca, fatto preda dell’impotenza e dell’universale dolore, per sua libera scelta, perché neppure lui intende essere contento fino a quando l’uomo non avrà raggiunto quel dies septimus in cui sarà in pari con se stesso o con la sua “ricchezza di umanità”.
Cosa diranno, caro Lupo, i cultori delle “immaginette” di fronte alle tue tavole sconsacrate, loro che hanno fatto un ornamento di quell’Evento, il cui sangue (come ha scritto Alessandro Manzoni, e parlava del sangue sparso per mano di un fratello, e non del suo) è “troppo per tutti i secoli e per tutta la terra”? Tu sei in buona e sicura e cristiana compagnia; stai con quel “Gesù in agonia fino alla fine del mondo”, di cui parla Blaise Pascal in quel tremendo Mystère de Jésus, che potrebbe essere il libro di testo di tutti i cristiani tragici, quelli che custodiscono il paradosso della croce, e non si consumano negli affarismi della presenza dalla pretesa teologica accecante (di questo è ancora Pascal che li accusa) o nelle riduzioni delle mediazioni culturali, che finiscono troppo spesso in cortocircuiti che bruciano il sostantivo cristiano e le qualificazioni mondane, rubando a entrambi l’onesta identità.
Ma si può continuare a leggere ancora la tua ricchissima storia impietosa. I misteri non danno tregua. Ecco quello della donna crocifissa, una donna dell’attesa, vegliata lei da Cristo, che non nasconde uno stupore senza limite per tanto scempio; ecco il grande Cristo tutto rosso e quasi ubbriaco di dolore, secondo quel detto biblico che “solo calcai il torchio” e dalle uve pigiate ne uscì sudore purpureo come sangue, che Clemente Rebora, nel disfacimento della malattia, ha reso in modo sublime per ebbrezza di canto e di dolore. Solo calcai il torchio, è il suo titolo e fa parte dei Canti dell’infermità:
Solo calcai il torchio:
con me non era nessuno:
calcarono su me tutti:
inebriato quasi spreco di sangue in una rossa follia:
solo il torchio calcai:
liquido amore profuso
in estremo furore,
calcai il torchio, solo:
solo a torchiare,
solo a spremere il Sangue mio:
tutto il mio sangue sparso
tutto in me già arso.
(San Clemente, 1956)
Mario Lupo si è inserito d’istinto in una grande falda di lettura cristologica, si è inserito per connaturalità senza nessun cerebralismo che in pittura è limite come è limite il solo fermarsi alle “allucinazioni della mano” (è Delacroix che lo teorizza); è orgoglio del filosofo e dell’amico aver riletto i nomi di questa storia, da Dostoevskij a Pascal, da Rebora a Manzoni con quel frammento del Natale 1833 (su cui Mario Pomilio ha immaginato un pensoso romanzo più vero del reale) dove risuona perentorio e sgomento quel Sì che Tu sei terribile, che dovrebbe atterrire i facili acquerellisti di Cristo.
E da ultimo, ma non ultimo, il grande poeta cristiano e radicalmente umano, cavaliere della speranza e fratello di ogni infermità, dal cuore allagato di poesia e di un “difficile” Dio, David M. Turoldo.
(presentazione in catalogo - 1976)
L’espressione può essere l’immagine d’un sentimento e d’un paese. Per Mario Lupo il sentimento è antico quanto il mondo e il paese è Grottammare. Un’arte che, nella sana ispirazione provinciale, ha la forza dell’opera classica, sempre espressiva, ma semplice come la natura e la vita. E seguendo una accentuata formazione naturalistica tendente a ritrarre le classi sociali più abbiette, gli ambienti ove operano le passioni della povera gente, Lupo vuole essere il pittore dell'umanità marinara. E per questa aspirazione è riconosciuto artista geniale, autorevole rappresentante del panorama artistico contemporaneo, notato, apprezzato e indicato come l'artista del mare, col pathos di un romantico espressionista, che crede alle virtù e al destino del popolo.
Ai vàgeri del Viani contrappone le donne in attesa sulla sabbia di fuoco, mentre i gabbiani intrecciano voli e scrivono nel cielo profezie di vita o di morte. Solitudini di povere madri scalze vestite di nero, l’attesa di mogli di pescatori all’alba sulla spiaggia, o al balcone, o tra le canne, o sulla scogliera, con l’anima in pena nel presagio o in letizia, di sera, con l’avvicinarsi delle luci delle lampare. E fra queste donne è ricorrente il gabbiano che vola lento e manda un grido particolare all’approssimarsi della burrasca.
Le donne e il gabbiano (le altre opere fanno corona a questa lunga e ambita serie di opere maggiori) nel cozzo del dramma, fra guizzi di luce rossastra, vivono in un abbandono di sogno e speranza. L'artista è sempre nel centro del quadro, s’abbandona e seconda lo sviluppo del racconto, trasportato dal flusso delle memorie e da un certo atavismo; e questa sua partecipazione irradia sulla materia pittorica una pacata luce melodica nel cui giro cromatico si disegnano le figure. La sua arte è tutta in questo affiorare di figure, di gabbiani e di motivi in vicende di colore. In questa atmosfera l’umanità è posta sullo stesso piano del reale e dell’ideale, diremmo dell’etereo. Le sue donne, quasi riedificate nel ricordo d’una vicenda di mare, non hanno una vera e propria fisionomia, ma ne hanno una generica nei tratti della bontà, o dell’amore e del sacrifizio, e sembrano tagliate nella pietra dura.
La traduzione in arte di ciò che offre la vita, questa poesia del mare, questa dolce nostalgia della sua gente, la presenza di forze misteriose palpitanti dietro il velo del reale, danno alle sue opere il fascino di certe scene che ricordano i campi d’affresco o i bassorilievi in cui i nostri artisti del trecento rivivevano il poema cristiano.
Soprattutto è bene precisare che Lupo cerca di dare ad ogni cosa un fondamento esistenziale, in cui il tempo appare in tutta la sua verità.
Il tono è espressionistico, d’un espressionismo robusto, inciso, più drammatico che lieto, che mostra un appassionato rigoroso penetrare l’anima umana. La forma in cui questa poetica di Lupo si concreta è a volte plastica, espressa in un vigoroso contorno che staglia individui e gruppi in pose solenni, con vigore di luci o di ombre, vere masse scultoree; altre volte è un plasticismo luministico, con effetti di luce violenta che si sprigiona fra le figure, forte, strepitoso, urlante.
È innegabile in Lupo una componente esistenziale per la quale affida l’estro e l’arte ad individui carichi di singolarità, ciascuno diverso e eguale a se stesso, ciascuno chiamato a darsi una ragione della sua esistenza e della sua sorte. Inoltre Lupo è, come abbiamo detto prima, un autorevole esponente espressionista che considera l’oggetto naturale come funzione soggettiva, mediante la quale trasmette la sua propria tensione psicologica.
La potenziale carica umana-psicologica contenuta nella sua tenacia si stacca da influenze espressioniste nordiche, e fa di lui un artista mediterraneo che identifica il suo spirito con l’anima della sua gente.
(dal catalogo “Mario Lupo pittore” - 1972)
Nel convulso e disorientato panorama dell’arte di oggi, sulla scia zig-zagante dei «pop», degli «opt» e delle avanguardie più o meno «povere» o «cinetiche» di questa nostra era che si serve delle acquisizioni della scienza e della tecnica per sospingere l’uomo oltre le colonne d’Ercole del tempo e dello spazio, incontrare la pittura di Mario Lupo significa ritornare all’uomo e riscoprire il sapore suggestivo dei sentimenti deamicisiani.
Mario Lupo, pittore dalla natura poetica e concreta insieme, evita infatti gli equivoci; le facilità, gli ermetismi. Dirige e controlla, in coerenza al proprio temperamento, quella sua pittura, radicata nell’amore per le cose create e legata ai richiami di un mare che «gli è dentro» con tutti i richiami delle mitiche sirene, per interpretare in senso umano le vicende drammatiche della vita evitando altresì quelle soluzioni epidermiche che la padronanza tecnica gli consentirebbe, ma che il vento dell’arte spazzerebbe via come polvere.
Nelle sue opere, sia che l’artista dipinga l’isolato casolare corroso dal tempo e dalla sferza dei venti salmastri, sia che racconti la vicenda della diuturna fatica della donna del marinaio, sulle cui spalle grava anche il pesante fardello di un’attesa ogni volta alienante ed eroica, la materia pittorica fascia ogni cosa partecipando alla costruzione di un lapidario verso pregno di significati universali.
Le case o le donne di Lupo sono circondate di interrogativi. La composizione focalizza al centro l’humus esistenziale, ne determina il peso pittorico e significante per emarginare ai lati, con dissolvenze tonali adeguate, il senso delle incognite create a misura dell’uomo ma che nel gioco serrato dell’armonia universale, risponde solo a leggi locate al di fuori delle possibilità umane, in quel regno cioè dove tutto è supremamente e imperscrutabilmente infinito.
Mario Lupo è un semplice. Dalla terra natìa, la forte e gentile terra d’Abruzzo, ha tratto quel suo colore rabbrividito e tormentato ricco di grigi, di gialli, di rossi, di verdi e di bianchi calcinanti.
I casolari di Lupo, i tagli di paesaggio, quelle sue donne sempre chine, sono temi di una dimessa commedia umana annotata in immagini brevi di una palpitazione sottile e misteriosa che l’artista consegna alla tela, non per compiacenza naturalista ma per necessità di stile rigorosamente indirizzato a trasfigurare il dato realistico in una musicalità di ritmi connessi all’invenzione magica del colore.
L’isolamento anche architettonico delle case e delle donne di Lupo, quella solitudine psico-fisica che tutto stringe nel cerchio di una realtà pregnante e densa di significati, è semplificazione e stilizzazione della forma-colore sentita dall’artista come qualità essenziale capace di riflettere una verità lontana e insondabile.
Nei quadri di Lupo riemergono infine evocazioni di memorie; quasi il passare di ombre e di fantasmi che conferiscono un’animazione misteriosa spesso affidata al colore contenuto e talvolta alla materia inquieta e rabbrividita. Su queste tele in cui cielo, terra e mare, denunciano la loro presenza con una dissolvente solidità materiale, il pittore dimostra di non perseguire la bellezza nel senso inteso dagli artisti della Grecia classica o del Rinascimento. Per Lupo infatti esiste una differenza funzionale tra bellezza dell’espressione e potenza espressiva. La prima mira a piacere, la seconda invece a riflettere una vitalità spirituale più suggestiva e profonda.
In queste sue tele, spesso malinconiche, l’artista infatti sembra ripetere alle sue donne la frase scolpita da un ignoto: «Batte il dolore alla tua porta. Ascolta: c’è un messaggio ... per te».
Questa per noi, oltre che arte, è alta e umana poesia.
(dal catalogo per la mostra alla galleria d’arte “Proposte” di Pescara - 1973)
Max Dvoràk, il grande storico d’arte viennese, ci ha dimostrato come nell’arte del passato «idealismo» e «realismo» si sono compenetrati e completati sotto ogni latitudine e lungo l’arco del tempo, dall’ era sumerica alla Cina della dinastia T’ang, dal Giappone, nell’epoca in cui l’arte di quel paese è debitrice del suo stile alla famiglia Fujiwara, alla «Pesca miracolosa» di Conrad Witz, da Piero della Francesca a Jan van Eych, da Hugo van Der Goes al Dürer, Leonardo, Pieter Bruegel, senza soluzione di continuità e fino al periodo del rinascimento occidentale, quando i due concetti risultarono insufficienti per intendere la realtà, e il pensiero s’immerse nel groviglio dell’esistenza per scoprire il senso vero e profondo della natura e dell’uomo.
Realismo e idealismo divennero allora, anche in arte, «interpretazione della vita» e «elevazione dell’esistenza», messaggio quindi coscientemente rivolto dall’artista al prossimo fino a quando, nella seconda metà di questo nostro secolo, nel mentre i grandi movimenti di massa determinavano il destino della terra, l’arte diventava soliloquio, linguaggio del singolo, e sulla scia delle religioni abbandonate, dei miti divelti, delle idee dissacrate, lasciava l’artista a parlare di sé, delle proprie esperienze, delle proprie sensazioni, uomo solo, autore di opere per altrettanti solitari «addetti ai lavori».
Non tutti gli artisti però hanno seguito il giuoco delle parti.
Il pregio della pittura che ancora oggi non perde l’ancoraggio con le verità dell’uomo, e che volutamente ignora le mode, i comportamentismi, il senso merceologico che la società contemporanea ha conferito non solo alle pure sollecitazioni dello spirito, e quindi anche all’arte, ma a quanto il plagio pubblicitario riesce a contaminare, il pregio di questa pittura dicevamo, parte già dalla premessa poetica.
Le donne di Mario Lupo fanno testimonianza.
La pittura di Lupo infatti è cosciente partecipazione ai motivi umani del mondo dissacrato, una visione bruegeliana della pittura, una tavolozza immersa nell’idea sollecitatrice arricchita da una capacità interpretativa profonda, calda, recepita come atto di fede da una realtà, o situazione, che i più preferiscono ignorare magari per non donare nemmeno briciole di comprensione.
Il sentimento solare e mediterraneo della vita accompagna la concezione dell’arte di Mario Lupo. Ignorando per istinto sia le semplici che le complesse teorie filosofiche, l’artista abruzzese, naturalizzato marchigiano, sente che tutte le cose, investite dall’amore, diventano arte; soprattutto quando Lupo trasferisce sulla tela «tutti» gli elementi della vita naturale con carature che vanno oltre la stessa realtà, in un mondo cioè altamente interpretato dove l’uomo ritrova quella sua misura perduta da tempo per eccesso di scientismo.
La sua infatti è una pittura quasi bruegeliana tinta di francescanesimo, e corredata di un cromatismo rabbrividito da pulsazioni leopardiane. In ogni tela Lupo mescola la terra, il mare, il cielo solcato di gabbiani, fiori, e «le donne della costa»; di quella costa che può essere lembo marchigiano come riva abruzzese, spiaggia bruzia, sarda o costa slava, laddove cioè il mare è sinonimo di fatica, di pena, di attesa, di verità da cui emerge il dolore rassegnato dell’uomo, la grandezza della natura, le suggestioni, le ansie, i timori dell’attesa.
È su questa atmosfera che Lupo sublima esteticamente la gamma dei sentimenti umani nel tentativo di alleggerire il peso stesso del dolore dell’uomo attraverso precise dissolvenze pittoriche sulle quali, in alto, bianche ali di gabbiano sembrano aliti di vento spirituale che spinge il dolore umano, sublimato, verso l’infinito silenzio.
Mare, cielo, terra, gabbiani, donne umili in attesa. Temi e forme che tradiscono riferimenti di vita e perciò inducono alla poesia e al sogno; specie quando la tavolozza raddolcisce, attraverso le sembianze di un fiore, quasi ad avvicinare forma e colore alla sensibilità degli spiriti semplici.
È la storia eterna del mare e dell’uomo che rivive quindi nelle opere di Lupo, una storia che l’artista essenzializza con punte che indicano un riscatto, una condizione meno amara, proprio attraverso l’espressione condensata delle donne raggrumate in un emblematismo alto e preciso, ricco di significato; forme che la costruzione solida e nervosa insieme, piena di vibrazioni, delinea con pieghe e curve, tagli d’ambiente, grovigli di vita solcata da intuibili rughe, e tracciata da una ispirazione «naturale» che si realizza.
In queste sue opere Lupo trasfonde la sostanza viva di una umanità sentita con intensa partecipazione e con contenuta aggressività morale; in questa sua poetica lontana da sogni velleitari e da magniloquenze, riversa la propria arte vissuta con semplicità di uomo e vocazione d’artista, proprio perchè sollecitata dal mare sul quale è vissuto da sempre, e da tutte le passioni, le emozioni, i sentimenti di questo suo mondo, talvolta generoso e talvolta amaro, sul quale l’uomo ha passato, passa e passerà, infinite ore di «attesa» con lo sguardo rivolto ad un futuro che, se non altro nel cuore, è come miraggio pittato di verde speranza.
(da “Il Beato Sante” mensile di informazione e cultura del Santuario di Mombaroccio - 1990)
Una forte emozione mi scuote quando osservo o prendo in mano i “Cristi” di Mario Lupo, nei fogli-paglia e nelle serigrafie, perché vengo anch’io attraversato dai tanti sentimenti che la “suite” del “Cristo di tutti” vuole rappresentare. Non solo: Lupo riesce a dipingere una cinquantina di soggetti diversi e a restituire le tensioni spirituali espresse anche dal testo poetico di padre Turoldo. Lupo organizza la sua rappresentazione del Cristo con il valido fervore del suo mondo poetico. Il Cristo di Lupo è così un po’ movimentista: luminoso come il mare, mutevole come il cielo, soprattutto specchio del nostro teatro quotidiano, del nostro mondo impazzito. I “Cristi” di Lupo sembrano abbracciare non solo gli oggetti - dal legno della croce ai chiodi ai segni del mare - ma soprattutto una visione d’assieme con l’occhio sofferente di chi chiede attenzione. Si tratta di opere che per la loro forte carica espressiva riescono a racchiudere anche i sentimenti più comuni dell’uomo.
Uguali segnali popolari li abbiamo riscontrati nella rassegna dell’anno scorso quando è stato affrontato il tema della “Via Crucis” con Primo Angellotti, Luciana Nespeca, Raimondo Rossi e Sergio Salucci: così ci troviamo sulla stessa lunghezza d’onda, nella stessa necessità di una comunicazione complessa e di presa immediata, d’interrogazione e popolare. Direi una comunicazione sotto il segno francescano: fortemente materica e sensibilmente spirituale e intenzionalmente rivolta alle creature di Dio. L’anno scorso abbiamo messo in movimento alcune idee per un dibattito sull’arte sacra, quest’anno non cerchiamo spazi sofisticati quanto necessità spirituali di cui sentiamo l’urgenza. Meno pensieri, più invocazioni. Nel senso che si fa sempre poco per riportare l’attenzione sui temi religiosi, sia nella letteratura che nell’arte. Siamo un po’ tutti travolti dal benessere e da pubblici egoismi - sia del corpo che dell’intelligenza - e non ci accorgiamo dell’inquietudine che tanti cercano di comunicare, come questi “Cristi” di Mario Lupo. E se rimani ad osservarli non perdi tempo né ti stanchi: sono tutti diversi e tutti violenti e tutti ossessivi e tutti interroganti e tutti con gli sguardi di mio padre e di mia madre. Quei “Cristi” sono una parte di noi. E allora parlare di arte sacra vuol dire discutere della vita e delle nostre visioni. Interrogarsi sull’arte cristiana vuol dire riattraversare il “Vangelo”, nell’annuncio e nella morte e nella risurrezione del Cristo. E a questo itinerario ci guida per mano Mario Lupo.
(“La Nazione” - 14 giugno 1983)
[…] E arriva la libertà ampia di espressione che consente a Lupo di rivivere senza più sudditanze le vicende di vita: e tornano nella sua pittura le marine, la povera gente, le donne impietrite nelle lunghe attese di equipaggi che spesso non tornano; indurite dal dolore quasi vianesco che si tramanda per generazioni nella gente del mare. Le immagini cupe prendono ad alternarsi a rotture cromatiche improvvise: Lupo innerva nell’esperienza pittorica gli episodi vissuti nel tempo; le gioie e i dolori che il paesaggio e l’ambiente conservano come fatti di memoria.
Il segno, ormai maturo e significante, si fa strumento di scavo e di ricerca nelle sagome antropomorfe degli olivastri di Torre Mileto e nelle scie profonde, quasi incise nel cielo, dei voli dei gabbiani, compagni inseparabili di figure severe scolpite nel sale e dipinte nelle memorie di vita di questa splendida storia.
Molte definizioni sono state date della pittura di Mario Lupo e quasi tutte tendenti a metterne in evidenza il rapporto con la natura e la gente della sua terra in un’accezione «patetica».
Si tratta di un approccio non sufficiente se si vede soltanto la superficie del problema, cogliendone gli aspetti più immediati e descrittivi; se invece il termine pathos viene assunto nel suo significato etimologico di emozione profonda, di partecipazione viva all’intensità di un sentimento collettivo, allora il riferimento può essere considerato valido, nel senso che l’artista, con i suoi mezzi specifici, partecipa alla vita che lo circonda cogliendone gli aspetti che gli sono più congeniali.
Nella sua opera l’elemento determinante è la forza del segno e dell’approccio all’immagine, forza che corrisponde appieno al carattere dell’uomo ed al suo modo di affrontare le cose, cogliendone gli aspetti più vitalistici e godendo intensamente di ciò che la vita può offrire. Lo stesso amore per la vita e per l’interezza dell’uomo, senso e pensiero insieme, si ritrova nei dipinti di Lupo che si potrebbero paragonare, più che a frammenti lirici o a motivi elegiaci, ad una salda prosa dalle forti scansioni e dal largo respiro. Il suo racconto è bloccato in attimi di sospensione; il senso dell’attesa è nella scelta di linguaggio prima ancor che nei significati dichiarati dell’immagine. Anzi, è necessario porre molta attenzione a non cadere nelle trappole di una interpretazione troppo facile che propone dell’artista una lettura del «cuore» e dei «buoni sentimenti», laddove pare opportuno indagare i riferimenti di situazione culturale e la loro traduzione in un linguaggio autonomo ed individuale. Come nelle opere iniziali Mario Lupo guardava con particolare attenzione ai modelli astratti o si «esercitava» nelle scansioni spaziali e compositive del post-cubismo, così oggi nell’immagine degli Olivastri egli indaga quel senso di pittura piena, densa di materia, colore ed umori che è propria dell’attuale ripresa dell’informale.
Non si vuole con questo offrire di Lupo un’immagine troppo intellettualizzata, perché altrettanto importanti sono per lui i riferimenti al suo sentire fisico e sensoriale; è interessante però vedere come egli sa fondere emozione e riflessione, facendo degli olivastri colti «dal vero» a Torre Mileto dei brani di pittura autosufficienti che poco o nulla concedono al racconto descrittivo. Anche quando il suo interesse si rivolge alle malie del movimento - quello inarrestabile della risacca, quello vorticoso dei gabbiani o quello argenteo delle foglie d’ulivo -, Lupo lo trasforma in elemento pittorico, immergendo l’immagine in un pulviscolo atmosferico in cui paiono smussarsi le asperità e placarsi ogni ansia. Vi è un che di pagano nelle sue composizioni, quasi a dar voce alle mille anime dell’acqua, del cielo e della terra. Si leva un canto, ora dispiegato e ora appena accennato, a celebrare della vita gli aspetti diversi, contraddittori che la rendono inesauribile ed inafferrabile. E della vita si considera con uguale amore la barca abbandonata senza ritorno e la piccola pianta di peperoncino, il cui rosso di fuoco illumina di vibrazioni sensibili quei cieli e quegli approdi silenziosi. Il volo dei gabbiani riporta l’accensione cromatica sui toni dell’azzurro e del bianco, rivelando un parallelo senso animistico che sa dar voce alle presenze della natura.
Non è tanto una pittura di nostalgia, giocata sui registri del buon tempo che fu, quanto un’immagine del presente, delle sensazioni e dei desideri di oggi, anche se può apparire inattuale la ricerca insistita di una comunione con la natura in tempi di tecnologia avanzata e di progressiva perdita di ogni sua conoscenza diretta. Mario Lupo ripropone la perenne sfida dell’arte, tesa alla creazione di un universo parallelo in cui sia ancora possibile immergersi per sfuggire alle difficoltà del presente e per prefigurare dimensioni di vita migliore. È una fuga in avanti, nel sogno di un mondo diverso costruito per forza di illusione e di tensione immaginaria, ed è sintomatico che l’artista la proponga muovendo dai dati quotidiani dell’esistenza, dall’Hic et nunc della sua condizione di uomo e di pittore.
Si spalanca una finestra del suo studio, profondamente segnato dalle tracce del tempo e ricolmo di memorie culturali, e si apre ai suoi ed ai nostri occhi un panorama dilatato, fatto di aria e di luce, di cespugli in fiore e di uomini al lavoro, di azzurro del mare e di gabbiani che si rincorrono. Ed è una sua opera quella che ci si trova dinnanzi, per nulla statica e in continua trasformazione.
Non semplice, solo a tratti descrittiva, la sua pittura si rivela ricca di possibilità espressive ed interpretative e vi è soltanto da augurarsi che Lupo sappia approfondire l’indagine all’interno di se stesso e nel contatto pieno con ciò che lo circonda, senza abbandonarsi alle lusinghe del successo e rimettendosi continuamente in discussione. Vi è infatti da considerare che la «sua» immagine non è tanto la rappresentazione di un lembo d’Italia, quanto una trasfigurazione per immagini del suo sentire. Ed in questo, il suo rapporto con i fatti della cultura e della ricerca artistica deve sempre più precisarsi per individuare consonanze, diversità e particolari ipotesi da verificare alla luce della complessiva situazione della cultura e dell’arte di oggi.
Ciascuno di noi, almeno una volta, si è sorpreso a sorvegliare i propri movimenti fisici e intellettuali. Gli uni e gli altri - e conviene accettare questa formula - sono uniti da filamenti che resistono agli sbalzi degli umori e delle circostanze che sono difficilmente dominabili. C’è, insomma, tra fatto fisico e fatto morale una parentela strettissima di sangue, una convivenza felice che porta alla coerenza del singolo nella sua piccola e conquistata parte di eternità.
Orbene, questa parentela «fisico-morale» è, secondo me, alla base della pittura di Mario Lupo: la caratterizza in maniera inconfondibile e la rende arte con la «A» maiuscola.
Le opere di Lupo si impongono e si distinguono per una corrente di emozione che prende subito: anche l’osservatore distratto o superficiale. Quand’è così, significa che un artista riesce a comunicare e che, quindi, ha realizzato se stesso. A parte ciò, l’autenticità di Lupo pittore è conseguente all’autenticità di Lupo essere umano. È autentico (anche se non tutti sono d’accordo) solo ciò che nasce dai due aspetti della personalità. In definitiva: vale l’artista se vale, contemporaneamente, l’essere umano. L’epoca degli «artisti maledetti» è tramontata.
La «maledizione» che affligge l’arte dei nostri tempi è d’altro genere. È una forma di viltà, una rinuncia alla dignità: mentre si esaltano, a parole, coraggio e dirittura morale.
È rallegrante, davanti alle opere di Mario Lupo, poter constatare come sia l’artista, sia le opere, sono immuni da tal genere di maledizione.
Mario Lupo - e se ne contano pochi che sentono così - si è accorto che verità e realtà sono in fondo la stessa cosa, e che il resto è soltanto ombra e vuoto. Con questo non voglio sistemare l’arte di Lupo in nessuno scaffale, con «ismi» o «isti» più o meno alla moda. Dico soltanto, nell’osservare ad esempio «mare grigio» o «donne di pescatori» o «mare di zolfo», che il modo lirico di sentire la pittura, in Mario Lupo, non è un modo distaccato dalla vita degli uomini, dalle lotte degli uomini, dalle sofferenze e gioie degli uomini, ma è tutt’uno con la vita stessa, è una realtà pressante di ogni giorno che ci impedisce, moralmente, di non tenerne conto: se non vogliamo che l’arte stessa diventi un’espressione senza significato.
Di questa esigenza Mario Lupo è totalmente conscio: basta guardare gli occhi, lo sguardo smarrito, l’interrogativo angoscioso del pescatore in «e stette un gran pezzo pensando a tante cose ...» per rendersene conto. Maggiormente quando simile angoscioso interrogativo ritroviamo negli altri dipinti di Lupo: vuol dire che la sua «ARTE» non si riduce a «convenienze» o ad «astuzie», non è parvenza di vero, ma procede sul cammino giusto che non ammette fratture tra la vita e l’arte, tra gli uomini e l’arte.
Mario Lupo non è un pittore alla moda: ma il suo non è un atteggiamento, non è una posa, non è un calcolo per attrarre attenzione. È semplicemente una presenza cosciente dentro la crisi del nostro tempo, di un artista che ne ha consapevolezza, ma non per questo si arrende, tradisce se stesso, oppure si abbandona al tran-tran più comodo - e più facile - delle correnti alla moda.
Mario Lupo è uno di quei rari artisti che, soprattutto, crede nell’arte, e rispetta l’arte, sentendo, conseguentemente, il dovere di approfondirne‚ per quanto lo riguarda‚ tutti i motivi, le discordanze, i contrasti, per giungere ad una chiarificazione indispensabile e illuminante. Da tempo ormai, come viene riconosciuto dalla critica più qualificata, Lupo ha operato - ed opera di continuo - lungo una direttrice costante per la ricerca dei valori espressivi ridotti all’essenziale (basti guardare la sua tavolozza) e carichi di una sempre maggiore tensione. Ma ciò che più conta - in questa sua ricerca - consiste nel non aver mai abbandonato la sua coscienza di uomo, infondendo in tutte le sue opere quei segni che rivelano, appunto, la sua passione per l’uomo.
I quadri di Mario Lupo, sono quadri d’anima, e quindi pervasi da un clima di sogno, da un’atmosfera lirica: ma portano sempre dentro di sé tragedie o miseria, o fame, o semplicemente uno squallido nulla. Sono opere che, in certo senso, emanano un fascino misterioso da incutere timore. Quello stesso timore che ci afferra alla gola quando ci troviamo di fronte alla nostra coscienza, o al «muro» della nostra condizione esistenziale. Si è affascinati, in un certo senso dalle ripetizioni con variazioni delle quali l’Artista si avvale tanto abilmente: si è affascinati e se ne paventa la fine inevitabile. Non v’è fine, in verità, ad un modo di dipingere come quello di cui egli si avvale: è sconfinato, come l’universo stesso.
Va detto ancora che «il mare», per Mario Lupo, non è questo o quel mare: è «IL MARE», alla Conrad per intenderci, che comprende qualsiasi distesa d’acqua oppure oceano, con barche e barche e barche, cullate nei porti, o quiete sulle rive, o in lotta con le bufere, e uomini e uomini e uomini, fuor d’ogni ceto e d’ogni stirpe. Il mare come vita, il mare come destino.
In definitiva, per Mario Lupo, l’arte non è un passatempo, un gioco che diverte. È soprattutto, come per Josè Ortega, «una necessità di legge morale, una necessità di ordine etico per l’invenzione artistica».
La maniera di Lupo è sostenuta, stilistica, espressiva, il suo senso drammatico non è reso solo dalle immagini in generale, dalle maschere umane (quando si mostrano al riguardante) dal volo basso dei gabbiani sull’onda tempestosa. Esso è insito nel linguaggio che si svolge su forme tendenti alla volumetria, nell’asprigno delle cromie, nei connettivi neri che paiono saldare gli altri colori, connettivi marcati quant’è marcata dal disegno ogni cosa che si pronunci nei dipinti di Mario Lupo. La sua tavolozza batte su tastiera evidentemente reattiva, nell’urto del biancagno con l’azzurro oltremarino, con la spugnosità dei verdi citrini e gialli scuri e “chiazze” - a volte - di violacei picchiettati di rosso ruggine: frasi, tra l'altro, ricche di sottintesi psicologici.
Mario Lupo matura con sofferta lentezza il proprio linguaggio pittorico.
Con i mezzi dell’arte, che in lui si fanno, ogni anno di più, personali elementi di stile, egli tende a fermare, nell’incessante divenire, particolari momenti legati alla sua contrada natìa. Scogli e mare, case e alberi, orizzonti di sabbia e cielo, s’uniscono all’uomo nel rendere manifesta la comune ragione di essere: una tenace attesa di redenzione dal dolore, dall’effimero.
Il suo dipingere, dopo alcuni giovanili tentativi di semplificazione che non lo hanno soddisfatto, si è sempre di più risolto, come esigeva il suo temperamento, intessuto di profonda charitas verso uomini e natura.
La singolarità della produzione, sempre più di tipica evidenza nella maturità, lo conferma.
Disadorno per intima schiettezza, senza nulla concedere ad aggettivazioni superflue, temprato nel comporre, segnare e colorire, quanto un poeta nella sintesi lirica, Mario Lupo scopre l’esistere di natura e uomo, compenetrato l’uno nell’altra, e ne trae per intuito, sempre più avveduto dalla lunga ricerca, accenti di sicura efficienza. Il suo non è un descrivere di derivazione ottocentesca e neppure, nella sua arte, vi è possibilità di adesione a formalismi, a problematiche di moda. Non vi è richiamo ad altri pittori. È solo se stesso, nel largo respiro di cielo e di mare in cui poggia piccole case o persone unite da eguale destino, nella concisione che imprime al soggetto prescelto. Le donne e la riva, le pietre a cui si appoggiano, ove si raggruppano hanno una sola ragione d’essere: la sofferta rassegnazione. E i segni che bloccano un gruppo di madri o spose in attesa dell’uomo pescatore, si permeano degli stessi valori cromatici che animano pietre e sabbia, onde e cielo.
Il particolare sarebbe estremamente vano se distraesse dall’unità costruttiva, in tutto evocativa di una condizione unica di vita. Questo è superamento d’un vedere ottocentesco. Dire che l’impressionismo e i fauves non hanno nulla di comune con questo dipingere, è ovvio.
Tuttavia Fattori e Cèzanne sono presenti. Più sottile ne è il distacco dall’espressionismo: ma l’esasperazione, fondamento di tale tendenza nordica, non è davvero in carattere con la italianità di questo dipingere. E le avventure formali e materiche, dovute di troppo ad escogitazioni critiche non trovano eco alcuna in un temperamento con tanta evidenza teso a risolversi per intima necessità creativa.
Cercherei in caso una affinità di propositi con la serrata efficacia dei quadri di piccolo formato di Sironi.
Nell’opera del Maestro lombardo e in quello che si viene qualificando del Lupo, scopro un comune ascendere dal particolare all’universale: un dolore vivente, non inerte, attivo e invocante, che tende a placarsi per vastità di echi nell’immenso che ci sovrasta e che pur palpita in noi.
La disciplina che è misura di acquisito mestiere, di cosciente consapevolezza nell’opera di Mario Lupo, la si vede in alcuni rari abbandoni al colore, in quadri di contrade fiorite.
Ma di quale ricchezza di finissimo timbro sono imbevuti i suoi bianchi essenziali, le distese di sabbia, di mare, di cielo. Accentuarne la gamma cromatica ne disturberebbe il respiro, l’efficacia evocativa.
Accanto al tanto sperimentare, strutturalizzare ed escogitare, pur consono al tempo che viviamo, vicino alle indiscusse positive affermazioni dei maggiori astrattisti, la sola possibilità di esistenza del figurativo, di un figurativo coscientemente intessuto dell’uomo e per l’uomo, è nella sobrietà dei mezzi per sintesi di lirica evidenza.
E Mario Lupo, di tale figuratività rinnovata, è uno dei più sicuri assertori.
(“Castel di Lama Insieme” - 9 luglio 1988)
[…]La rivisitazione di un tema religioso come quello della Crocifissione ha seguito canoni iconografici molto diversi da quelli tradizionali: ”Una mia meditazione, in solitudine, sulla sofferenza di Cristo e degli uomini”, ha precisato Lupo a mo’ di presentazione per meglio introdurre quell’universo turbinoso e trafelato in cui il dramma di Cristo sembra perdere connotazioni divine per farsi meramente umano, per vestirsi di quell’umanità primigenia il cui stupore è sinonimo di innocenza, la cui vita si snoda nella sofferenza della quotidianità. Nulla di eroico ha da manifestare quest’ Uomo sofferente se non i propri dubbi, la propria dolorante sfinitezza.
Sullo sfondo di cieli tenebrosamente vuoti si staglia l’immagine di un Cristo popolano di immediata comunicazione perché emblema del comune dramma dell’esistere, del sacrificio che si consuma nella solitudine, nell’incomprensione. Vecchie in attesa, cariche di impenetrabili silenzi, chiuse nell’atavico dolore che le appesantisce per lunga consuetudine, vegliano ai piedi della Croce: non vi sono apostoli e neppure soldati a raccogliere l’ultimo gemito di Cristo. Ultimo barlume di speranza sembra darsi nel volo dei gabbiani e nella loro morte e crocifissione avvertiamo la cosmicità del dramma, la sua permutabilità, la comunione che con esso ha ogni creatura vivente, partecipe dell’ordine come del caos cosmico. Il Cristo somiglia al gabbiano che remiga nella tempesta verso un orizzonte più chiaro e lo struggimento delle donne si eleva con lui, anelano anch’esse all’infinito della speranza e del riscatto. Fra le creature viventi si stabilisce un’equazione sullo scenario sanguigno e apocalittico in cui si consuma il perenne dramma della vita, del peccato e della redenzione.
Chiodi infissi nella roccia, mazzi di chiodi come fiori in offerta e fremiti di ali testimoniano il dissidio fra la necessità del dolore e il riscatto della vita, fra caduta e totale rigenerazione. Mai fu ritratto un Cristo più umanamente fragile e prostrato, mai così partecipe del destino dell’uomo, della sua quotidianità di affetti.
Solo Lupo, con la sua interiore sensibilità, poteva offrirci squarci drammatici e una così commossa e popolare religiosità. Nei suoi lavori si fondono fede e poesia, il dramma di Cristo trova una sua dimensione originale, meno distaccata e solenne, ma certamente capace, come ogni opera d’arte che sia veramente tale, di suscitare in noi una partecipata commozione, un’intensa carica di suggestione.
(“Scena Illustrata” - marzo 1976)
La pittura di Mario Lupo è uno degli esempi più luminosi oggi di come - nonostante tutto - il figurativismo non sia morto. Anzi, con le sue visioni intense e significative e i suoi emblematici personaggi, Lupo dimostra per contrasto l’inefficacia poetica di tutte quelle tematiche che si mascherano dietro vezzi intellettualistici, per nascondere una incapacità di fondo nell’affrontare la realtà. È precisamente quest’ultima difatti che egli ricerca nelle sue tele e non per ingenuo naturalismo imitativo; non per nulla la sua derivazione “chiarista” gli fa porre in primo piano un dato, la dialettica della luce, che, proprio per il fatto di essere percettivo, è nelle condizioni soggettive - e cioè a priori - della sensibilità che trova il proprio fondamento. E ciò sia detto, seppur per ora su di un piano solo formale, per sgombrare il terreno da equivoci e da interpretazioni sommarie e superficiali che appiattiscono l’analisi del fenomeno della sua pittura. Basandosi, in definitiva, anche sui soli dati formali è possibile comprendere come le tele di Lupo non siano fredde imitazioni dalla realtà, bensì intense espressioni della realtà. E qui le parole vanno prese sul serio: espressione è infatti il contrario di impressione. Con quest’ultima si intende un qualcosa che colpisce la nostra sensibilità dal di fuori e che in quanto tale noi registriamo (questo senza voler togliere nulla poi agli ampi risvolti soggettivi cui la tematica degli impressionisti dava luogo); con espressione intendiamo invece il processo inverso, dall’interno all’esterno: un modo di tessere - soggettivo - che imprime di sé l’oggetto esterno della visione. L’atteggiamento dal quale muove l'espressionismo non è più quello sensitivo-passivo, bensì volitivo-attivo, anche se sul dato della percezione - nel senso dianzi chiarito - conserva una forte carica emozionale. Si guardi difatti come in Lupo le strutture compositive tendono ad affermarsi, in risvolti decisamente emblematici e come il chiaro-scuro naturalistico viene continuamente superato in termini qualitativi dai forti timbri cromatici: è la realtà, sì, il polo dialettico di riferimento, ma una realtà “aggredita”, che l’Artista tenta di sviscerare, di analizzare dall’interno, partendo dal fatto incontestabile di sentirsi vivere con essa.
Se passiamo ora all’analisi puntuale delle sue tematiche troviamo una decisa conferma della coerenza di queste premesse formali, una conferma che non fa altro che dimostrare come in un vero artista il modo di esprimersi non sia altro che una conseguenza necessaria del modo di sentire, e non una ricerca affettata e cerebrale.
È noto - e su ciò è stato scritto già molto - come il mare sia il grande protagonista della pittura di Lupo. E, aggiungiamo, grande protagonista della sua pittura, perché lo è stato e continua ad esserlo della sua vita, del suo modo di viversi. È lo stesso Artista che ce lo rivela spiegandoci le sue tele “verghiane”: «Non ho inteso illustrare Giovanni Verga, ma da anni la mia tematica non sa staccarsi dal mare, presso il quale sono nato e sul quale ho lavorato. Ne porto addosso la salsedine e condivido l’avventura dell’uomo che lotta per vincerlo e le attese delle famiglie».
Queste parole dobbiamo cercare di coglierle, in tutti i loro risvolti: per Lupo il mare è elemento essenziale della lotta per la vita, simbolo vivente dell’esistenza itinerante. Non mero pretesto o “soggetto” pittorico, bensì la dimensione stessa entro la quale “soggetti” pittorici possono affacciarsi nelle sue tele e questo perché la sua simbolicità non è estrinseca - e cioè un portato dell’intelletto -, ma è al contrario calata, nel modo stesso in cui il poeta si vive, identificando la propria esistenza a quella di milioni di esseri umani che in questa lotta primordiale trovano il proprio sostentamento. Il passaggio quindi da una lotta a la lotta (dalla lotta sul mare e contro il mare, all’esistenza che è in ogni modo prima di tutto contrasto e lotta) è allora semplice e naturale, non essendo tutto ciò altro che la traduzione poetica di un dato immediato dell’esperienza (implicando ogni volta con sé, questo tipo di traduzione, la messa in risalto di significati che nel puro vivere senza “sapersi” sono nascosti e ottenebrati).
«Il mare è anche il bordo della terra, - sembra dire Lupo con Elliot- il granito / entro il quale si addentra, le spiagge dove sceglie / le sue testimonianze di una creazione diversa e più antica:/ … Scaglia ciò che noi perdiamo, la rete lacerata, la trappola per le aragoste fracassata, il remo spezzato, / gli arnesi di stranieri morti». Non ci sembra azzardato dire che Lupo potrebbe benissimo condividere questi versi (e non solo questi, ché egli è in realtà vicino a tutti quei poeti del mare da Melville a Conrad o ad un Verga, ecc., che, in questo elemento hanno espresso il loro dramma esistenziale); l’angoscia e la domanda che lo assilla è infatti - pirandellianamente - questa: come si dà la realtà, non già a chi la contempla per conoscerla, ma a chi l’affronta vivendoci dentro, sentendola come un limite di cui soffre, e di cui non può liberarsi se non affrontandola, facendola propria, identificandola con quella «passione di vita» di cui alla fine si muore?
E questa ricerca Lupo non può esperirla dall’interno se non attraverso la «vicenda» del mare, costruendo una vera e propria epica pittorica dei momenti essenziali di questa vicenda: l’attesa, i gabbiani, lo scoglio, il presagio, le lampare, la lotta e la morte. Ma lupo non si arresta qui: si guardi «Verso la luce», «Annunciazione» e si legga nelle improvvise impennate luminose l’ansia e lo sforzo di andare oltre il limite del vedersi vivere (certo non negandolo, bensì assumendoselo con coraggio, e la testimonianza ne è il «verismo» vissuto della naturale sacralità della «Annunciazione») verso un terreno puro della speranza. E qui potremmo continuare il paragone con Elliot, il quale sempre nello stesso componimento cui facevamo prima riferimento si chiede:
«Non avranno mai fine i pescatori, le vele / mosse da un fiato di vento con la nebbia in agguato? / Non possiamo pensare a un tempo che sia senza oceano, / a un oceano che non sia cosparso di rottami, ad un futuro che non sia capace / d’essere, come il passato, senza destinazione».
Ma se quest’ansia e questo sforzo rimangono pure al fondo come un costante polo di tensione, Mario Lupo resta in ogni caso il pittore legato alla condizione terrena della lotta. È in questo senso che la sua accesa poetica si è incontrata con la disperata rassegnazione di Giovanni Verga. Le sue tele della memorabile personale del ‘72 a Catania, intitolata appunto «Omaggio a Verga», ne fanno fede in modo inconfutabile.
L’epica alla rovescia del poeta siciliano, l’ironia tragica della «provvidenza» - risvolto dolente del destino sordo dei pescatori di Aci Trezza -, trovano nella resa espressionistica di Lupo delle risonanze altamente significative.
Il bellissimo tondo dell’affondamento della «provvidenza» ne è uno dei risultati più efficaci: innanzi tutto per la forma scelta, il tondo, che elimina qualsiasi dispersione visiva, e poi per quel cromatismo oscuro e minaccioso che mescola in un unico evento tempesta, vela e imbarcazione - straordinariamente sottolineata questa dalla linea curva che par quasi balzare fuori dal piano del quadro - facendo risaltare le tre sagome umane come altrettanti emblemi di uno scontro che non ha fine (e al limite di quella «passione della vita», alla quale abbiamo accennato, tesa e sorda, di cui alla fine si muore). Le grandi mani in primo piano, che tra poco non afferreranno altro che la propria disperazione, sono mostra - lì come segno tangibile di una forza - e di uno sforzo - che sta per esaurirsi di fronte a una battaglia che ci ha portato nel cuore della sconfitta. Una significativa didascalia - tratta dal libro - suona: «... sapere cos’era successo in quella notte…». È da qui che trae spunto la immaginazione di Lupo, per mostrare alla fine di quanta umanità infranta sia fatta quella lotta che nessuno ha visto e intorno alla quale angosciosamente sorgevano gli interrogativi.
A questo punto abbiamo abbastanza elementi per riprendere il discorso sull’espressionismo di Mario Lupo e per notare come questo abbia raggiunto in lui dei toni molto personali. Se infatti l’atteggiamento forte, attivo, cui abbiamo fatto cenno, è una nota comune di tutti i pittori identificabili come espressionisti - e dobbiamo sottolineare, dicendo ciò, che non si tratta dell’identificazione di una scuola, bensì più largamente di una corrente della cultura europea - occorre notare che l’altra nota comune, la tensione sociale, nella quale andava a confluire quell’atteggiamento, è estranea al nostro Artista. Egli non demistifica i vuoti simboli di una società che ha su di sé i bagliori della morte (come un Ensor, un Münch, un Nolde ecc.), bensì piuttosto immette tutta la sua carica espressiva in una tensione di carattere esistenziale, che assume così - come dicevamo - dei toni epici. La sua è allora, se ci si consente l’espressione, un’epica - esistenziale vissuta in chiave espressionista e perciò intimamente personale e feconda. È in essa il segreto della sua poesia e di quella sua presa emotiva, che sa suscitare in noi, come di fronte a eventi naturali, il sentimento primordiale dell’afferrarsi alla vita dal di dentro.
La vicenda pittorica di Mario Lupo si può evidentemente leggere in connessione con quella dell'uomo di vita travagliata che cerca, perché la intuisce per sorgiva apprensione, una strada inconsueta nel groviglio di crocicchi che un quotidiano non esaltante gli intreccia attorno. Ma sarebbe storia comune e non significante. Personalmente non credo alle predestinazioni, possibili da verificare soltanto allorché si è in grado di dare per acquisita la somma di vicende e di fatti che ne son seguiti. La predestinazione misurata dal punto d'arrivo, a destino compiuto o quasi, è pura tautologia. Cosa diversa è la vocazione, che ha bisogno di essere coltivata e patita fra incertezze, entusiasmi, fatiche, delusioni e tradimenti infiniti. L'essere chiamati all'arte, come a qualsiasi altra umana disciplina, non significa affatto che si trovino in noi già perfetti gli strumenti per operare. Occorre che le situazioni, le persone, gli eventi si dispongano per consentirci di tentare immagini che sono interrogazioni, domande su di noi e sul nostro mondo, alle quali non è un obbligo o una consolazione dar risposta da artista. Più spesso, anzi, la vocazione resta una domanda elusa, neppure disperante, da coltivarsi come innocente vagheggiamento di ciò che si potrebbe essere e non si è, di ciò che si potrebbe essere stati e non si è stati. Questa è la dimensione aggraziata o presuntuosa in cui si colloca il naïf pervicace o il dilettante appagato. Ma quando l'arte è cosa vissuta, maturata fra difficoltà e fraintendimenti, quando procura pena e insoddisfazione più che non diversioni (o divertimenti) dalla fatica dell'essere e dell'esserci, come avviene per Mario Lupo, ebbene è questa storia in cui l'uomo quasi si dimentica che possiamo leggere nell'immagine dell'artista. Ho ritenuto necessaria questa premessa per togliere di mezzo quel troppo colore che s'è acceso sulla figura di Mario Lupo, la cui biografia è stata usata, come tutte le biografie, per giustificare o addirittura spiegare i momenti più segreti di una pittura che va invece letta per se stessa, per quei valori di linguaggio, strutturali e formali, che certo han fondamento nell'uomo che li rende «immagine», ma che nella pur significante dimensione esistenziale dell'individuo certamente non si esauriscono.
Ecco infatti che le prime opere, i primi tentativi di Mario Lupo dopo la stagione degli esperimenti non finalizzati a una ricerca precisata, rivelano l'attento studio dei linguaggi del far moderno, o di ciò che per moderno si intendeva a cavallo degli anni Cinquanta nell'attardata provincia marchigiana ove gli entusiasmi, gli stravolgimenti, le generose sperimentazioni che coinvolgevano gli artisti dei grandi centri italiani giungevano come un'eco attutita, filtrata dal peso di tradizioni spesse e resistenti. I disegni, costruiti con qualche solidità scolastica, rivelano l'impegno del giovane ad uscire non disarmato da una fase in cui la tentazione del bozzetto e dell'aneddotica è oggettivamente trascinante. Vi è un foglio con l'immagine di oggetti d'uso quotidiano, una tovaglia, alcune posate, una brocca con bicchiere, un vassoio di frutta. Si direbbe, a descriverlo così, un disegno naturalistico e invece è uno studio sapiente di forme calate in uno spazio indefinito, colte nella loro icasticità e nel loro distacco di elementi plastici autosufficienti. È come se Mario Lupo avesse meditato non sulle cose, ma sui loro valori plastici. Infatti questo disegno del 1951 è appunto riconducibile a quella tradizione novecentesca, di quotidiana metafisica, che in quegli anni permaneva, sia pure contestata, nella tradizione italiana del far moderno, ancora legata agli ordini del classicismo, rivisitato magari attraverso la lezione di Cézanne. Due anni prima, nel 1949, Lupo aveva tratto un dipinto da una natura morta cézanniana, «Fiori e frutti». Da quello studio aveva certo ricavato motivi per correggere, e per riportare a precise solidità d'impianto, le suggestioni naturalistiche che gli potevano venire da certo interesse descrittivo che in quegli anni si rivelava anche nel gusto del bozzetto, del quadro di genere, della nota di impressione che l'autodidatta veniva coltivando più per impulso al racconto che non con l'intento di districare le problematiche proprie del segno e della composizione. Ma già all'aprirsi degli anni Cinquanta i dipinti di Mario Lupo rivelano una matrice tutt'altro che «ingenua» o abbandonata al puro estro. Alcune opere sono precisa testimonianza della sua attenzione per le soluzioni intellettuali — e perfino intellettualistiche — che in quegli anni si ponevano alla base del rinnovamento di tanta parte dell'arte italiana che scopriva, sull'onda dell'interesse per il cubismo, dimensioni inedite e possibilità di espressioni svincolate da modelli che potevano avvertirsi come provinciali. Composizione geometrica del 1951 e la Natura morta cubista del 1952 sono lì a dimostrare quanto sia gratuita l'affermazione, troppo ripetuta dai biografi, che la pittura di Lupo sia priva di ascendenze o che non si inserisca in una ricerca che è stata di tanti italiani in quegli anni. Va da sé che l’artista tendeva ad una propria autonomia espressiva, ma se questa autonomia non si fosse nutrita di riferimenti e riscontri con la cultura del suo tempo sarebbe stata cosa ben povera e ben poco significante. Trovare invece il giovane autodidatta in sintonia, in quei primi anni del dopoguerra, con ricerche formali avanzate (ecco la dimensione neocubista avvertita al di fuori di ogni impegno ideologico, ma indagata con acuta volontà intellettuale) è un fatto che dimostra la capacità di Mario Lupo di non lasciarsi andare soltanto all'azzardo dei sentimenti, ma anche di sapere esercitare un controllo spesso rigoroso sulle forme. Queste stanno al racconto come un filtro in cui la sensazione diretta passa e si depura da sempre incombenti rischi di ridondanza narrativa. Infatti, dove questi non vengono evitati, si registra una caduta di tensione, uno scarto nell'aneddotica, una genericità di impianti: le stesse componenti, insomma, che fan scrivere giustamente al più acuto studioso dell'opera di Mario Lupo, Giovanni Maria Farroni: «è una pittura semplice, perfino a volte un po' ingenua, se vogliamo, quella che si colloca nell'arco di tempo che va dal 1953-54 fino al 1960. Colori teneri, rosati, giallini, verdi acqua, cilestrini, grigio perlati, ma dosati nelle campiture, nelle masse e distribuiti con equilibrio armonico che è già molto di più di un dipingere da dilettante autodidatta». Va detto che il riscatto d'ingenuità avviene proprio attraverso un'analisi di strutture che porterà Mario Lupo non solo ad adeguare a queste i toni e lo spessore stesso della materia, ma a sperimentare soluzioni «colte» proprie di una tradizione di chiarismo marchigiano che già in quegli anni era impersonata al massimo di raffinatezza da Francesco Rossini.
Si potrebbero utilmente confrontare certi Cantieri, certe Spiaggie, certe Marine con i capanni striati e i fantasmi lievi delle barche tirate in secco dipinti da Rossini proprio in quello scorcio degli anni Cinquanta, con opere d'analogo tema composte da Mario Lupo nello stesso periodo. Si avrà un altro punto di riferimento per dimostrare che Lupo non è un artista isolato da un contesto d'arte e di cultura, al quale sa dare la propria personale risposta, anche indipendentemente dal rapporto, del resto anch'esso significativo e determinante, con Bruno Fanesi. Già nel 1954, con Il Faro di Ortona, Nel cantiere e Porticciolo, Mario Lupo si avventura in composizioni dove s'avverte l'intento strutturale. Il colore cala sul quadro come una patina, al di fuori di ogni intento naturalistico. Anzi, è ancora del 1954 un dipinto in cui serpeggia una vena d'ironia che coinvolge la stessa prospettiva (Sulla spiaggia) in soluzioni raffinatamente «primitivistiche». Più evidente ancora è la vocazione alla struttura ora coltivata da Mario Lupo nella serie di fantomatici Studi prospettici composti nel 1955. Sono architetture deserte, tagliate da intense striature cromatiche che sottolineano implacabili linee di fuga e masse di volumi che, ammorbiditi ma non più dimenticati, ritroveremo nelle soluzioni di paesaggio e di natura morta degli anni seguenti (Cabine, Composizione, L'imbuto del 1958) e si coaguleranno nelle belle sintesi, al limite dell'astrattismo lirico, in due tra le più convincenti prove dell'artista, i piccoli Paesaggi di materia gemmata dello stesso 1958. A questi si accompagna un'altra opera di straordinaria invenzione plastica e cromatica, Il burattino, in cui emerge, oltre alla strutturazione scenografica che avrà poi tanta parte nella evoluzione dell'opera di Mario Lupo, anche una capacità di amara sintesi e d'ironia, tanto più tragica quanto più allontanata nella dimensione del grottesco. In questo momento l'artista è lontanissimo dall'impostazione chiarista, che tuttavia permane in una serie di opere importanti eseguite fino a tutta la prima metà degli anni Sessanta (Ritratto di Riccardo, 1959; Pannocchie, 1960; Angolo di Pesaro, 1962; Verso la scuola, 1962; Marina con vele, 1963). A queste si alternano opere in cui la pasta pittorica si raccoglie in masse più solide e spesse, come avveniva nei due Paesaggi del 1958 già ricordati, e l'atmosfera non si fa più svanente nel monocromato ma si costituisce per alternanze, sovrapposizioni, e anche contrapposizioni di materia: come avviene nel paesaggio del 1962 Giulianova Alta ove i piani diversi dell'opera si scalano a seconda della densità che la materia-colore viene ad assumere nelle diverse zone del quadro.
In questi anni, di riflessione ma anche di formazione, compaiono alcune composizioni scabre e rugose, anticipate da un’opera sobria e severa, del tutto atipica fra quelle fin qui dipinte da Mario Lupo, come Centauri all'arrivo del 1962.
A questo punto l'artista compie una scelta tecnica che dai suoi esegeti è ritenuta di grande importanza, l'uso cioè della tela olona che egli prepara da sé creandosi il supporto ideale per una pittura che si avvia a farsi sempre più scabra e sempre più intrisa di umori terragni e «popolari». Non mi sembra, ovviamente, che le scelte tecniche siano indifferenti nell'opera di un artista, ma forse a determinare la svolta da una pittura rarefatta e comunque preziosa anche quando Mario Lupo alternava all'uso dei pennelli quello della spatola, è stato il desiderio dell'artista di recuperare qualcosa delle proprie radici tornando, con più studiati mezzi, al racconto di storie e di situazioni vissute che erano già state oggetto dei suoi primi disegni.
A questo punto è forse necessaria una riflessione sull'atteggiamento che l'artista tiene verso se stesso e nei confronti di un lavoro d'arte che assume sempre più importanza nella sua vita e che finirà per essere quello a cui Lupo si dedica, lasciando ogni altra attività. Non si tratta più ormai di cercare un'evasione dal o nel quotidiano, di assumere l'arte come unico e solo punto di riferimento del vivere. L'artista sente di essere uscito di minorità, di avere maturato strumenti ed esperienze sufficienti per scegliere la propria immagine all'interno di una realtà di memoria che gli appartiene da sempre. Le preoccupazioni formali si fanno meno assillanti e Lupo può tornare con sguardo confidente a quel mondo di povere cose e di poveri oggetti, a quelle scene di vita semplice e forte che sono state le immagini della sua giovinezza. Non stupisce che vi torni con intento di realista, ma con lo sguardo nostalgico del ricordo di situazioni e di eventi che nella memoria si semplificano al massimo e si spogliano del dato intellettualistico — del resto presente come filtro ormai ineliminabile — per attingere verità più sognate che reali.
Le Marine, i Paesi, anche le Nature morte che egli dipinge in questo periodo, sono immagini di relitti della memoria assai più che non testimonianze di un reale quotidiano ormai trascinato, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, alla imagerie della società affluente. Questa viene scartata o sottintesa nei lavori di Mario Lupo. Sulle sue spiagge compaiono i resti minacciati di casupole di pescatori in rovina, povere barche abbandonate sulla rena, strette di case aggrappate alla collina, scene della vita infantile colte come attraverso un velo di sogno. Ecco La barca rossa, Marina in giallo, Case in collina, Colonia marina del 1964, immagini che sembrano sottratte al tempo e alla contingenza per essere riportate a una dimensione antica e incontaminata. Così è per i gesti e gli atteggiamenti rituali delle Donne in attesa che cominciano a comparire con tutto il loro sottinteso allegorico proprio in questi anni nelle tele di Mario Lupo. Pur mantenendosi l'impronta chiarista in molte opere (Le canne, 1964; Marina, 1965; Sosta sulla riva, 1965; Marina con vele, 1966) in altre i colori e la materia si inturgidiscono, prendono una consistenza di terra, di sabbia e di mota che li rende prepotentemente immaginari quanto «veri». II passaggio dal naturalismo al verismo (qualcuno parlerà di pittura verghiana), ma di un verismo che presuppone la scelta di motivi privilegiati, si ha in questo momento in cui Mario Lupo, rotto l'incanto delle finezze più propriamente formali, usa la pittura come strumento di racconto volto al pathos. Può essere riflessione di antiche malinconie (Maschera triste, 1965) o sull'eterno, duro svolgersi delle stagioni che scuotono e tormentano l'ambiente dell'uomo (Paesaggio invernale, 1965) o sull'antica fatica del mare e sul dolore della gente rassegnata a lente condanne (Preparativi, Pescatori, ll mare nero, Donne in attesa, tutti del 1966). I colori si fanno irreali e l'opera, scabra e terrosa, s'ammanta di tonalità brunastre, azzurrognole, di verde acido che la trasportano in atmosfere senza tempo, di memoria appunto. Anche gli oggetti subiscono la stessa sorte di spaesamento, perdono d'umiltà e assumono il ruolo di straniti protagonisti. Ciò che ancora vi è di naturalistico nella Natura morta con pere e nei Peperonidel 1965, si fissa nell'accento «verista» (quindi di interpretazione e di esaltazione dell'oggetto prescelto come testimone di realtà costruita) de La mia tavolozza, 1965 e di Peperoncini del 1966, fra le opere di più alta invenzione formale e cromatica di questo periodo. I colori accesi che le caratterizzano, e che valgono come segnali di un «particolare» volutamente isolato nel generale contesto di pittura atmosferica di Mario Lupo, ricompaiono con prepotenza anche in lavori di più dispiegato intento narrativo. Ecco il rosso inatteso delle reti ne i Pescatori del 1966, ecco il tocco aranciato di poveri arbusti ne Il mare nero dello stesso anno.
Da questo momento in avanti si alterneranno nella pittura di Mario Lupo, affondata nelle luci bluastre, violacee, imbrunite nei grigi e nelle terre, improvvise fratture di luce che spezzano il tono uniforme, contratto, delle superfici, sempre più chiuse in una loro dannazione incupita. Le composizioni delle Donne in attesa ne sono l'emblematica immagine: relitti fra relitti di un mondo serrato su se stesso, immerso in atmosfere di povera leggenda. L'immagine rituale, insomma, predomina in queste tele e non fa meraviglia se in esse compare anche, tradotto in termini di laica religiosità, il tema di una iconografia della pietas e del sacro e popolare che già aveva avuto un antecedente nella simbologia dolente de ll mare nero, allusiva all'affondamento di un peschereccio. I toni, i ritmi compositivi, il colore ghiacciato, l'atmosfera ruvidamente tesa dei dipinti con le donne dei pescatori sono trasposti in significativo parallelo nell'opera San Francesco e l'angelo a dimostrazione che ancora una volta il «verismo» di Mario Lupo è un verismo visionario. Se non bastasse, ecco i Pulcinella in polemica, un olio del 1969 in cui sogno e realtà, memorie e patetismo si fondono in armonie quasi surreali, come avviene anche nella sintesi drammatica di Maschera triste del 1971. Ormai Mario Lupo ha maturato un proprio linguaggio, particolarissimo e riconoscibile, in cui resta solo lieve traccia delle antiche dolcezze formali, alle quali si sostituiscono più densi bagliori del sentimento, sostenuti ora da uno scoperto andar di forza del pittore che sente di battere una strada tutta propria. Può quindi esprimersi con quel vigore e quella rabbia «popolare» che sente ormai di poter riscattare nei modi propri di una pittura tanto solida da far pensare a quella dei grandi muralisti messicani, di Siqueiros in particolare, del quale Mario Lupo deve sentirsi congenere quando si esprime nell'impeto dei sentimenti elementari, come avviene nella laica maternità del dipinto L'ultima speranza (1971) o nel racconto del rito (Benedizione del mare, 1972) o nelle parabole della sacralità popolare (Annunciazione, 1973). La ritualità è comunque il segno determinante di questo periodo in cui comincia a trasparire in termini via via più dilatati la dimensione allegorica (Epilogo sulla riva, La morte del gabbiano, 1973) che trova nella serie dei Gabbiani uno dei suoi motivi più scopertamente allusivi (Sole freddo, 1974 e L'Annunciazione, ove la chiamata viene dall'uccello del mare). Può essere curioso notare che proprio mentre Mario Lupo accentua la componente simbolica, la critica insiste sulla matrice «verghiana». Bisognerà attendere un lucido saggio di Dino Carlesi, scritto nel 1977, per recuperare il significato delle simbologie di Lupo ben oltre le convenzioni del populismo: “Se è chiaro che il mondo di Lupo è quello del mare, della sua gente oscura e sublime per intensità di sentimenti e predisposizione alle attese silenziose, è anche vero che questi cupi silenzi dell'uomo di mare sono motivi solo apparentemente centrali nel vasto contesto della sua produzione: in realtà le donne bloccate in primo piano o che smarriscono i volti nell'ombra dei grembi o quelle chine e gravate da pesi enormi che vanno oltre la vecchiaia e l'assenza, tutte tradiscono l'attesa di qualcosa di più solenne e di più disperato (di cui l'uomo e lo sposo o il figlio sono solo un aspetto casuale e scatenante); direi che tradiscono attese ancestrali di una fine inevitabile, di quella quotidiana ed esistenziale perdita di felicità che coincide, al limite, con la fine dell'esistenza...”
Ecco che le «storie del mare» narrate da Mario Lupo si aprono a più ampie significazioni. Non è più il dramma umano a gravare le lunghe attese e le chiuse solitudini di un mondo senza età e senza tempo, ma la maledizione (o la benedizione) quotidiana dell'essere e dell'esserci, trasformata in simbolo, in mito ancestrale. A questa dimensione allargata ben oltre l'episodico corrisponde naturalmente quello che lo stesso Dino Carlesi definisce il «controcanto» di momenti tenerissimi d'immagine, di luci e di colori fioriti, perché il mito è sempre corale e la coralità del tragico non può non accompagnarsi a quella del sogno, anche del sogno che si apre sulla quotidianità. È in questi anni che i dipinti di Mario Lupo si animano di inattese luci, si aprono ad atmosfere sognanti dove l'irreale predomina sul senso della realtà, come avviene in ogni dilatato momento dell'immagine che travalica oltre il racconto per farsi segno di una totalità ove ogni cosa confluisce, passato e presente, fantasmi della memoria e ricordi assiepati in ordini straniti. Ha ragione Francesco Lista quando, in un saggio del 1977, parla di «un linguaggio idoneo a decantare le cose e ad esprimere le loro significazioni anche remote», ma io sarei anche più drastico e direi che proprio e solo le «significazioni remote» ora contano per Mario Lupo. La realtà era già trasfigurata in simbolo nella grande tela Occhi di mare dipinta nel 1974 ove la donna, il mare e il gabbiano sono rappresentati nella loro «verità» mitica di emblemi antichissimi, vorrei dire eterni, della metafisica mediterranea. Decisamente simbolistica è l'opera Chiaro di luna dello stesso anno, anche se qui nella figura del nudo femminile trapassa qualche memoria della dura specie delle «donne in attesa».
Queste riprendono infatti peso di realtà in opere come Solitudine del 1975 ove la donna, il mare e il gabbiano sembrano, ma è solo apparenza, sottrarsi alla svanente dimensione della memoria. In realtà Mario Lupo ha ormai costruito una struttura di immagine per la quale ogni fatto, ogni episodio, ogni situazione, ogni oggetto, vengono filtrati, depurati dal peso della mera citazione iconografica e si sublimano in una più alta e corale leggenda. Corale attesa è appunto il significativo titolo del grande dipinto murale che Mario Lupo imprende nel 1976, raccogliendo in una sintesi potente e dolcissima le sue memorie d'immagini: le donne, ma anche i fanciulli, i fiori, i gabbiani, l'involucro azzurro del mare e del cielo in cui si fondono e si confondono i ritmi di una laica ritualità. È preceduto, questo grande dipinto, da una esplosione di colori e di immagini che ormai hanno rapporto soltanto con la visionaria realtà che l'artista coltiva in se stesso e che si esprime nelle metafore d'ardita concezione formale rappresentate da dipinti come Il gabbiano nero, ma specialmente dalla serie di opere che s'accendono di nuovi colori e fioriscono di improvvise dolcezze (Primavera, Primavera in collina, 1977) e di inattese lievità. Sono le stesse suggestioni che hanno consentito a Mario Lupo di disegnare le scene per il balletto di Caterina Ricci I Gabbiani (1975) ove il gioco del vento, della luce e delle trasparenze d'atmosfera si libera pienamente togliendo peso alle cose, che restano come simboli d'un fluido sentire, echi di una sottile musicalità. Ora le due anime dell'artista, quella della dolce sensibilità, dell'astrazione lirica e l'altra, che lo porta con la memoria, ma ormai soffusa, al mondo impietrito del lavoro, della fatica, dello sgomento e della miseria senza possibile sollievo, queste due anime, dicevo, si esprimono in una visione sottratta alle determinazioni di tempo, di spazio e di luce. Mario Lupo, insomma, ha raggiunto una sintesi puramente pittorica, entro la quale ripone, come in una scatola colma d'echi, la sua memoria delle cose vissute, ormai riviste soltanto attraverso quel particolare e incantato diaframma che è costituito dalla visionarietà del pittore.
Non tutti i critici si avvedono di questo determinante trapasso ma qualcuno, come il già ricordato Francesco Lista, ne coglie benissimo il senso quando parla di «astrazione fatta segno e cromia». Mario Lupo, insomma, ormai dipinge per ritmi puri per i quali l'illusione e l'allusione iconografica perdono peso e significazione descrittiva. Non è un caso se l'ultima, potente sintesi, avviene con la composizione del ciclo dedicato agli Olivastri di Torre Mileto, metafora scoperta della natura e delle sue forze in cui si riassumono tutte le vicende passate e presenti di una storia di drammi e di dolcezze, d'uragani e di pace, di sole e di vento. Una storia che non ha più bisogno dell’uomo per essere detta e rappresentata.
Lo studio di Mario Lupo è una tolda sull’Adriatico. È un teatro settecentesco (come ce ne sono tantissimi nelle Marche), del quale è restata soltanto la struttura esterna ed intorno un numero imprecisato di stanze e stanzine che si rincorrono su piani diversi: un groviglio architettonico stipato, per ogni dove, di quadri e disegni, di carta e di tele bianche, di libri e giornali di ogni genere e data, di tavolozze, tubi e tubetti di colore, spatole, cornici, bottiglie di acqua ragia (ma anche di ottimo vino bianco di una sua vigna). E poi ancora un’infinità di oggetti e cimeli: un fiore secco e una radice levigata raccolta sulla spiaggia, indefinibili oggetti che furono ornamento od arnesi, di pietra o di legno o di ferro. Infine una rigogliosa pianta di rossi peperoncini al sole su un balcone.
Una volta descriverò per filo e per segno con un racconto surreale tutte le anime vive e morte di questo studio perché così non solo riuscirò a ricostruire la storia dettagliata delle emozioni e dei sentimenti, delle occasioni e dei dettagli di vita e d’arte di Mario Lupo ma perché potrò fare la descrizione di un «castello misterioso» che non ha nulla di kafkiano ma è segreta fucina della poesia: prerogativa che persino muri e cose sembrano dichiarare.
Si leva, questo studio, sulla parte più alta di Grottammare una delle più belle e nobili cittadine dell’Adriatico che si allunga sul filo di una rupe di tufo e sopra le querce che la rupe tengono solida, mentre al basso arriva il turchino o il bianco dell’Adriatico e si stendono i tetti rossi della città moderna. Le finestre dello studio si aprono su questo paesaggio che misura il mare e la riviera come se si fosse in alto sull’albero maestro come accadeva una volta quando il navigare era affidato soprattutto agli occhi e ad una bussola e un cannocchiale. Arrivano al davanzale le fronde fittissime di un ulivo inselvatichito, ma non privo di frutta, e quelle di un cespuglio di fico che si mescolano sul muro con i grappoli dei capperi.
Dire che questo studio è sul mare è comunque non dir nulla. Il mare si vede in tanti modi. Qui dove lavora Lupo il mare entra di forza con la sua luce e la sua voce e soprattutto con il cangiare dei riflessi del sole a seconda delle stagioni e delle medesime ore della giornata: dal mattino quando il sole si alza rosso e il mare si fa lattiginoso sino a quando, nel tramonto, arrivano scintillando rossi bagliori, o quando il grigio, anzi tutta la gamma dei grigi, sembra ruotare sui tetti.
Bisogna parlare di questo «studio del pittore» e dell’Adriatico perché tutto questo è consustanziale alla pittura di Lupo. È come se mare luce vento gabbiani cielo e sole arrivassero direttamente sulle tele preparate e sui larghi fogli bianchi per continuare il proprio respiro sottolineando il mistero del movimento e il mutamento della natura mentre diventa parlante il silenzio delle figure che il pittore inserisce per dare una specifica interpretazione e il tutto collocare nella propria visione di poesia.
Non ho voluto iniziare la mia testimonianza sulla pittura di Mario Lupo con una divagazione letteraria (anche se sono scrittore e non critico d’arte) ma semplicemente perché non è possibile prescindere dai contenuti che sono intorno soggetti di osservazione meditata e di mediazione espressiva.
Su questi termini della realtà Lupo dipana, infatti, la sua narrazione, scoprendo una dimensione fabulatoria semplice e drammatica, intensa nei modi di comunicare, coerente nella crescita stilistica (come assai bene ha descritto Franco Solmi in un saggio che ritengo fondamentale per chi vorrà studiare il cammino del pittore). Egli ha obbedito a questa vocazione non per il richiamo dell’istinto inventivo. Se si fa (come altri ha fatto egregiamente) la storia della sua pittura ci si accorge che sono stati pagati tutti i pedaggi e tutti i debiti con la pittura del tempo e dei luoghi ove Lupo ha vissuto o si è fermato. Ma detto questo bisogna aggiungere che la vera e profonda radice ha una motivazione che va ben oltre e che nasce nel cuore dell’artista in una emotiva voglia di raccontare, di dire lo stato dell’anima, fondamentalmente drammatico, anche quando si accende di delicati momenti lirici. Voglio dire, insomma, che la pittura di Lupo non è mai stata solo un fatto stilistico o una ricerca di colore ma una passione e so, con ciò, di mettermi in disaccordo con quanti hanno parlato di questo artista.
Mi è sembrato - e la conferma è giunta quando ho conversato con lui sulla sua attività - che la carica sentimentale e una sorta di malinconia esistenziale lo dispongono di continuo a ricercare le affinità e gli stati del suo essere fra le cose sino a leggervi se stesso e farle compagne ed ombre della sua giornata.
Una vita intensa che cerca nella fatica e nell’attesa, o in tutto quello che le rappresentano, i termini naturali delle sue descrizioni: le rive del mare, i gabbiani, le donne e quasi sempre in una proiezione della sofferenza. Le marine sono spazzate e più ancora tormentate dal vento che brucia e piega olivastri canne e tamerici; i gabbiani faticano il loro volo senza perdere d’eleganza; le donne chine in se stesse avvolte dall’intimo silenzio.
Altrettanti emblemi o più ancora altrettante allegorie della fatica che risulta nella tela come evento di bellezza e di partecipazione fraterna. Non sono solo gli scrittori che continuano a raccontare sempre la propria biografia: questo lo compiono anche molti artisti quando hanno, come si dice in un’espressione popolaresca, il «cuore in mano».
Il mare è stato il suo destino: sin dalla nascita è stato una sorta di ipoteca e di giuoco duro e insieme felice. Da giovane lo ha navigato sulla tolda o sulla plancia di una nave e credo che allora non avrebbe immaginato che avrebbe poi seguito - anche con una maggiore, se pur diversa, intensità - questa avventura della vita «per mare». Per questo stare dalla parte dei sentimenti, la pittura di Mario Lupo è percorsa da lampeggianti luci romantiche. Non c’è la distaccata chiarezza classica ed anche nelle opere più lontane (degli anni di Ancona) nel «chiarismo» del pittore restano alcune rughe di un realismo che connota più la passione che la contemplazione. Così anche ora, quando in alcuni quadri - a volte di amplissimo respiro: quasi affreschi nei quali si possa entrare - fa sbocciare la primavera nei fiori e nel verde tenero che fora la ghiaia e la sabbia, la raffigurazione è composta nel segno di un’ansia che non si può non cogliere negli sguardi interroganti e dolci delle donne. Occhi e volti che assai raramente si scoprono perché il più delle volte le figure sono un elemento della composizione per dare, con la presenza umana, una maggiore intensità patetica.
Come è accaduto a me credo che siano molti gli affezionati della pittura di Lupo e i tanti fedeli collezionisti che si chiedono il perché le figure umane siano solo femminili: mai un pescatore, mai un marinaio. Compaiono, al più, i bambini accanto ad una scuola o, più piccoli, raccolti nelle braccia di una madre o di un’ava. Mi pare che la risposta sia da ricercare in quell’atmosfera di malinconia sulla quale si muove il racconto interiore. Direi che il pittore coglie assai meglio nell’immagine femminile gli estremi struggenti della sua continuata allegoria. Perciò nei pochi quadri ove incontriamo gli occhi di queste figure vi scorgiamo stupore e tenerezza.
A questo punto, notando il variare coloristico dei suoi ritornanti contenuti si potrebbero trovare le ascendenze che legano l’autodidatta Mario Lupo alla tradizione pittorica moderna. Anche questo è compito di critico: da scrittore ho voluto dare solo una lettura testimoniale e privata. A me basta di fare il nome di Lorenzo Viani per una identica intensità della figurazione; inoltre mi sembra possano esserci legami con un certo espressionismo dei Paesi nordici. Credo di dover dire questo perché la natura spirituale di Lupo (cittadino del medio Adriatico, di una zona ove l’Abruzzo e la Marca si uniscono nella stessa bellezza gentile) interpreta la luce e il colore, le atmosfere in una chiave gravida di amarezza: c’è un grido che percorre le sue tele ed è certo anche per questa suggestione che la sua pittura trova un’immediata comprensione e, diciamo pure, una straordinaria amabilità. Così, infatti, si possono anche registrare gli affetti che suscitano le sue opere nella misura più naturale. Ed ancora mi pare di dover aggiungere un’osservazione proprio sulla distinzione diacronica del suo iter creativo. Negli anni più recenti il pittore mi sembra abbia raggiunto - in questo però sincronicamente con la consueta descrizione - il vertice della invenzione nella figurazione degli «olivastri». D’accordo, queste piante c’erano nelle sue marine ma dopo gli anni Ottanta le ha dipinte solitarie in primo piano nel loro contorcimento: allegoria pura del dolore e, nella modulazione tecnica, quasi una sfida all’astrazione ed all’informale. Con queste opere più recenti Lupo conferma la misura di una fedeltà mai tralasciata ed insieme anche un modo di guardare sempre più in profondo. Ma non ci si lasci ingannare: non è la tecnica, che domina pienamente e piega alla sua invenzione, è invece quella che Solmi ha chiamato «la visionarietà» e cioè il modo irreversibile di essere nella geografia dei sentimenti che avvicinano al comune patire ed al comune interrogarsi con la semplicità della poesia.
(dal libro “Il Cristo di tutti” - 1988)
Non si può parlare del lavoro di Mario Lupo senza far prima riferimento alla persona: l’esistenza e l’espressione, il personaggio e il creatore sono così radicalmente connaturati come accade soltanto in chi si muove nella pienezza d’una vocazione. Con la sua figura forte, con il volto corrucciato (e una certa somiglianza con Beethoven marcata dalla civetteria della candida chioma) fa pensare a quel “forte e gentile” Abruzzo che, se talvolta può essere luogo comune, non lo è certo per lui perché sotto questo aspetto (che può mettere un poco di soggezione in chi non lo conosce) c’è una amabilità rara: un’umiltà interiore che non significa però mancanza di convinzione per quel che dipinge. Lupo è un artista che in ogni caso - nella vita di tutti i giorni e nell’opera - segue la passione e il peso della propria pittura con una cordialità che sembra esaltarlo e, nell’esuberanza, persino travolgerlo.
Chi conosce le vicende della sua scelta, o da lui ne ha sentito il racconto, può dire con tranquilla sicurezza che sono pochi gli artisti di oggi che, come lui, hanno camminato in tanta ardua salita per confermarsi e potersi identificare nella pittura: pittura che non gli “ha preso la mano”, come talvolta si dice, ma gli ha preso tutto: la mente, il cuore, l’anima, il tempo ed ogni futuro. C’è stato infatti nella vita di Lupo un salto talmente radicale possibile soltanto ad un uomo coraggioso come lui quando, ancora con una fresca famiglia da mantenere, ha imboccato l’avventura creativa chiedendole anche i mezzi per vivere. Il prezzo pagato (anche se oggi ci si deve rallegrare) in sacrifici, in umiliazioni, in attese lo può dire lui solo (e prestissimo lo dirà: in un libro autobiografico di prossima pubblicazione: fondamentale per capire la sua pittura).
Lupo ha mantenuto la schiettezza fedele che un grande cristiano del nostro tempo cercava nello spirito della giovinezza e chi ha familiarità con lui sa con quanta generosità si getti nel lavoro, con quanta schiettezza sia disponibile nell’amicizia e capace di un'intensa comunicativa dietro l’aspetto falsamente burbero: sino a sentirlo modulare, con la sua forte voce, passi della Cavalleria rusticana e della Tosca da grande amatore della musica operistica qual è. Anche queste “crocifissioni” (o “Cristi” come egli li ha sempre definiti) nascono dall’impasto di emozione spirituale e di carnalità del cuore cui ho accennato; anche questo lavoro che ha intensamente segnato gli ultimi mesi è il frutto di uno sconvolgimento dell’animo che si interroga, della preghiera non pronunciata, della meditazione tumultuante su quella nozione di fede e di speranza che il pittore ha assorbito nella pratica della sua famiglia popolare, nello spirito di una tradizione naturalmente sensibile alla presenza del sacro. Credo sia inutile disquisire su quali siano le ascendenze e le parentele artistiche: di questo diranno - come in parte è stato detto - i critici con i loro strumenti storici; a noi basti ricordare che in tutta la produzione di Lupo - dai paesaggi con gli olivastri, alle figure di donne nell’immobilità dell’attesa, nel mare di fiori che talvolta apre come finestre di gioia sul mondo, all’elegante ed amaro volo dei gabbiani, emblema della fatica del vivere – c’è una fortissima carica di pietà: la medesima bellezza delle cose che lo colpisce sino a costringerlo all’opera ha radici di forti sentimenti.
Lupo che si è costruito senza scuole, con una tenace applicazione di autodidatta e quindi con tutte le febbrili curiosità intellettuali e culturali, ha avuto la fortuna di mantenere intatta la propria natura passionale. Quando i critici futuri aggiungeranno quello che magari noi non scorgiamo, non credo possano tralasciare di considerare l’eccezionale movente della sua pittura che nella elaborazione di queste opere “cristiane” è scoperto come può esserlo un’invocazione, come può esserlo un racconto di dolore e di tormentata conquista della confidenza in Cristo. Se in tutti i periodi e in tutti i contenuti c’è una toccante partecipazione cristiana, che definirei la delicatezza della fraternità, “nelle crocifissioni” la parola diventa alta ed aperta, sembra quasi che il pittore descriva la sua cattura da parte di Cristo, il Cristo sofferente e paziente, il Cristo che chiama a seguirlo nella croce, ogni giorno ed in ogni condizione.
Questo incontro era inevitabile giacché esistevano tutte le premesse e più ancora c’era l'attesa interiore: vale a dire quella sorta di silenziosa problematica, sia pure indefinita nelle forme, che scaturisce dalla sensibile coscienza del dolore dell’uomo e del tempo, personale e storico. Un artista della sua natura, agli antipodi di ogni calcolo intellettuale, è sempre in ascolto delle motivazioni profonde del cuore, di quell’esprit de finesse, di quegli interrogativi che provocano anche le folgorazioni più forti del linguaggio poetico.
Si arriva accanto alla croce per una sola strada e questa è una condizione che Lupo ha rispettato alla lettera e forse senza neppure che lui stesso lo abbia avvertito appieno. La tensione che si legge in quasi tutti i suoi quadri - al di là della loro amabilità -ha gli emblemi, e i simboli della Redenzione operata dal Crocifisso; per questo la sequenza di oggi ricapitola, a suo modo, un itinerario, il libro intero della sua vita d’artista. Così è naturale che il suo linguaggio e la sua parola giungano alla soglia della rispondenza del poeta o del teologo o dello scrittore o di chiunque sappia avvertire il mistero che la croce, mistero pasquale, porta con sé.
Non c’è stata preordinazione teoretica in questo capitolo ormai centrale della sua attività creativa. La suggestione improvvisa, visivamente immaginata è stata di quelle che giungono dai precordi. Lupo mi ha raccontato com’è nata la prima “crocifissione”: disegnando una mano come rattrappita ed unghiata da una cruenta lacerazione, da uno spasimo fisico della carne. Non è difficile immaginare che egli abbia pensato alle tante figure di morte e di strazio che ogni giorno la cronaca dell’odio fra gli uomini fa giungere ai nostri occhi.
È la cronaca - direbbe Bernanos - che scrive Satana, “principe di questo mondo”, che trova nel farsi uomo di Cristo la sconfitta e la riproposta continua della speranza e dell’amore. Lupo disegnando questa mano ha “visto” che era una mano crocifissa e inchiodata e così si è sviluppata, nello stesso momento e nelle ore che son seguite, una serie di disegni e poi - quasi con una sorta di concitazione interna - la ripetizione e le variazioni nei giorni e nelle settimane seguenti. Quasi preso da un interesse mistico tanto da fargli lasciare incompiute altre opere che aveva pressoché terminate. Disegnare e scartare, disegnare e variare ampliando quella che è la semplice teologia di un artista che riprende e sente i pensieri e le parole di una pietà popolare nella quale è vissuto e che scandisce nell’ordine delle cose l’ammonimento evangelico del Maestro nella sua parola: “portare la croce”, “ognuno prenda la sua croce” ... Lupo, disegnando e dipingendo, ha interrogato Cristo o meglio ha seguito un dialogo che ha momenti di tragica intensità. Si pensi a talune figurazioni che a prima vista possono sembrare profanazioni o ingenuità vale a dire le sostituzioni del Cristo sulla croce. Credo che, invece, egli abbia toccato con estrema purezza il simbolo e la verità di quello che da sempre sanno gli uomini di fede e che cioè il Cristo continua a soffrire e chiede a noi di stargli accanto nella sofferenza. Penso, cioè, a come Lupo abbia parafrasato Pascal. La centralità di Cristo nella storia e nella vita sono figurati con una decisione che è insieme lucidità emblematica e tenerezza popolaresca. Questo elemento popolare di racconto della passione non è raggiunto con sottigliezze ermeneutiche poiché il linguaggio della pittura - come è stato ripetuto - è un “linguaggio muto” ma dice pure qualcosa (anzi il meno che si possa dire è che, si tratta di un caso stupefacente) che di lui abbia scritto un saggio, pregnante di complicità spirituale, Italo Mancini che inevitabilmente mi fa ricordare il saggio di Maritain per Rouault. Egualmente stupefacente che un poeta come David M. Turoldo - poeta dell’impazienza e della fraternità cristiana - abbia accostato le sue composizioni liriche alle immagini di Lupo.
Turoldo, che da sempre nei versi grida la sua invocazione o prega a fior di labbra la tenerezza della Vergine o la misericordia da Cristo ha somiglianze ed assonanze creative con il pittore così che le rispettive opere s’illuminano a vicenda.
A me pare che una lettura coerente di queste tavole non possa che investire tutti, tutte le motivazioni ispirative e del sentimento, dello stile e della struttura che ha usato Lupo. La sapienza di questo o quel singolo aspetto non credo sia sufficiente per sentire quello che ci abbiamo di fronte. La finezza espressiva (ma anche le campiture e il magmatico dell’espressionismo) si fonde con la sacra rappresentazione che trovo nelle laudi che dalla terra umbra e toscana sono sconfinate in terra d’Abruzzo: la terra di Lupo ove il mistero della croce è dentro (o era dentro) il cuore della gente.
Non posso fare a meno di vedere nei chiodi dei “crocefissi” i lamenti della Madonna al piede del patibolo.
Scrivo questi pensieri per l’amico pittore proprio nella Settimana Santa e vedo riflesso nel suo lavoro l’eco dei canti secolari che le manifestazioni del giovedì e venerdì santo ancora tramandano:
“Senti lo pianto che fa la Madonna: /
Curri, Gioanni, a consola’ Maria” …
…O quel capolavoro della Lauda dei
disciplinati di Urbino:
Planga la terra, planga lo mare
planga lo pesce ke sa notare,
plangan le bestie nel pascolare
plangan l’aucelli nel loro volare.
Plangano fiumi e rrigarelli …
L’essenzialità espressiva delle sue opere permette i riferimenti più diversi ma non è questo - lo ripeto - il senso che ho voluto dare alla mia testimonianza guardando e “leggendo” con l’emozione di un qualsiasi lettore che nella straziata figura del Cristo trova ogni altro strazio, ogni altra prova che si frappone nel cammino della speranza e tenta persino di disperdere la carità fra gli uomini ancora capaci di viverla. Il grido che, parafrasando Ungaretti, si direbbe contratto in segni di pietra, è un richiamo costante della “preghiera” di Lupo. Spendo questa parola nella maniera più semplice possibile: ogni volta che abbiamo la figura del Golgota davanti a noi è l’invocazione che ci si spalanca. Mancini, giustamente, fa il nome di Rebora, del mistico Rebora.
È ciò che riscatta in certezza il livido oscuro segno di ogni morte ed è proprio per questo che Lupo descrive, nell’ultima istanza della poesia, il dono di speranza che dalla croce scende sulla terra. Il grido dell’agonia precede il gran silenzio della nuova primavera dell’umanità. Ed ancora una notazione a confermare questa sorta di fedeltà al Cristo e di fedeltà all’uomo che Lupo ha descritto. Lui ha seguito questa fase del suo lavoro cristiano nella più assoluta libertà. Anche nel nostro tempo gli artisti non sono sordi al richiamo della rappresentazione cristiana; anche se cristiani non sono.
E questo è certamente un motivo che conferma la purezza della creazione poetica; però il più delle volte lo fanno per una sollecitazione o ragione esterna. Lupo, no: ha ascoltato solo la voce imperiosa del suo animo.
[…] Che la prima “personale” della galleria venga dedicata dal giovane al “vecchio lupo di mare” mi pare giusto e non posso fare a meno di aggiungere che è un gesto di gratitudine da sottolineare perché il giovane Riccardo non può aver certamente dimenticato la fatica paterna nel voler essere pittore e vivere di pittura. Mario Lupo ha risposto da par suo: allineando per la massima parte grandi opere inedite dipinte per l’occasione. Lui resta un pittore legato quasi fisiologicamente al mare e qui ha voluto rappresentare l’aspetto drammatico delle “burrasche”, rappresentazione dell’essere interiore degli uomini. Burrasche che raccontano ma che sono un emblema folgorante e cupo, tragico e solenne insieme.
“Perché - come lo stesso pittore mi ha detto - la burrasca non è soltanto quella dell’Adriatico che con le onde schiumose sembra voler travolgere le figure al riparo dei pinastri ingobbiti o di una fragile barca rovesciata sulla battigia. La burrasca è la condizione esistenziale nel tormento di quello che di contrastante viene dal profondo noi stessi”.
Qui ci sono tutti gli elementi specifici della pittura di Lupo: il travaglio del vivere il silenzio degli uomini, l’impassibile ed ignaro volo dei gabbiani che stridono la loro eterna insolvibile stanchezza. Creature patetiche i gabbiani di Lupo che sembrano avere le ali per esprimere la fatica.
Ho detto che Lupo è legato da una connivenza naturale con il mare ma dovrei dire di più e cioè che è stato il mare a suggerire, nei suoi orizzonti di solitudine o nella irosa voce nelle burrasche, il racconto della sua pittura.
Infatti non è senza significato che anche nel dipinto più idillico, nel paesaggio di contenuto arcadico si finisca sempre per sentire la brezza marina, l’animazione della bora o del maestrale, quel soffio al quale il ragazzo di Giulianova ha esposto i suoi giuochi e il maestro-pittore di Grottammare il suo lavoro. Certo a lui non importa questa definizione o quella misura, e se per qualcuno chiamarlo romantico sarà una restrizione (soprattutto in un tempo come questo nel quale barocco e gergo sembrano fondersi per fare più ottuso il linguaggio). Piaccia o no “l’impeto e tempesta” di Mario Lupo vengono da una natura forte e tenera e bisogna riconoscere ancora una volta che quel suo appassionarsi nel mare che incombe e nel raccontarlo, quasi amara fiaba per adulti, spiazza quelli che, avendo “torto da vendere”, non riconoscono che le vie della pittura sono tante (non vorrei essere irriverente ma quasi quante quelle della Provvidenza) e ciò che conta in un artista è la fedeltà alla propria misura spirituale che poi è l’interna violenza dell’ispirazione. Ebbene Lupo sente questa pressione nell’animo e la burrasca ne diventa il modo esplicativo, il canto (o l’urlo se si vuole), l’icastico lamento dell’uomo ferito.
Infatti la burrasca è immagine di patimento e di pazienza e mi riferisco ad alcuni quadri di ampia dimensione ove le figure sono come sferzate impietosamente, prepotentemente eppure nonostante questo impari confronto, il pittore non rappresenta la sconfitta dell’uomo.
Il romanticismo di questi quadri non è immagine di resa o di fallimento ma al di là del rischio e della stessa paura c’è la resistenza di chi vincerà la prova. Il suo romanticismo, insomma, ha una robusta componente dello spirito che sa opporsi al cedimento. C’è dolore, c’è il timore ancestrale, c’è la consapevolezza della forza della burrasca ma anche una feconda capacità di esaltare le sue creature.
Sia ben chiaro: nessun titanismo di altre stagioni pittoriche, nessuna epicità nelle sue figure nella burrasca ma semmai le tensioni che il pittore ha sottolineato qualche anno fa, nel cammino della croce e nella passione del Cristo. A questo riguardo non posso non ricordare quello che di lui ha detto Carlo Bo in una pagina memorabile che ci aiuta ad approfondire lo sguardo anche in queste opere recenti e di contenuto specifico. Innestandosi in un’altra storia “lo fa nel suo modo più congeniale e più vero, fuori degli schemi, delle suggestioni e delle facili offerte di ripetizione. Intanto lo mette nel cuore stesso della sua vita, lo pone sì sulla terra ma è una terra che confina con il mare, meglio con l’infinito e poi lo lega alla immagine della madre eterna e a quella dei gabbiani che hanno la doppia funzione di testimoni del mistero ...”.
C’è ben poco da spostare fra quello che Bo diceva dei Cristi e le figure odierne delle burrasche. Nei primi la sostanza religiosa è scandita; nelle burrasche siamo alla soglia.
Chi guarderà con attenzione queste ampie grandi tele dovrà ammettere che le costruzioni più determinate non perdono l’icasticità coloristica anche se in taluni momenti ha accentuato quella “forte pittura” di cui diceva il suo amico teologo Italo Mancini allorché, incantato, gli chiedeva quale forza mai potesse guidarlo e quale “orgoglio d’amore” potesse mai crescergli dentro per saper descrivere la segreta burrasca che si agita nel fondo del cuore.
Non credo sia il compiacimento dell’amico reputare che le formidabili burrasche del “vecchio lupo di mare” s’inseriscono, a pieno diritto, nella storia della pittura sul mare del nostro secolo e che per coloro che l’hanno praticata è stata una penetrazione al bello e terribile mistero che l’elemento rappresenta.
Descrivere il mare che irrompe è chiederci un perché, quasi toccare la scorza del mistero e restarne abbacinati.