PERCORSO ARTISTICO


Testo di Franco Solmi, dal libro “L’immagine corale” - 1983
La vicenda pittorica di Mario Lupo si può evidentemente leggere in connessione con quella dell'uomo di vita travagliata che cerca, perché la intuisce per sorgiva apprensione, una strada inconsueta nel groviglio di crocicchi che un quotidiano non esaltante gli intreccia attorno. Ma sarebbe storia comune e non significante. Personalmente non credo alle predestinazioni, possibili da verificare soltanto allorché si è in grado di dare per acquisita la somma di vicende e di fatti che ne son seguiti. La predestinazione misurata dal punto d'arrivo, a destino compiuto o quasi, è pura tautologia. Cosa diversa è la vocazione, che ha bisogno di essere coltivata e patita fra incertezze, entusiasmi, fatiche, delusioni e tradimenti infiniti. L'essere chiamati all'arte, come a qualsiasi altra umana disciplina, non significa affatto che si trovino in noi già perfetti gli strumenti per operare. Occorre che le situazioni, le persone, gli eventi si dispongano per consentirci di tentare immagini che sono interrogazioni, domande su di noi e sul nostro mondo, alle quali non è un obbligo o una consolazione dar risposta da artista. Più spesso, anzi, la vocazione resta una domanda elusa, neppure disperante, da coltivarsi come innocente vagheggiamento di ciò che si potrebbe essere e non si è, di ciò che si potrebbe essere stati e non si è stati. Questa è la dimensione aggraziata o presuntuosa in cui si colloca il naïf pervicace o il dilettante appagato. Ma quando l'arte è cosa vissuta, maturata fra difficoltà e fraintendimenti, quando procura pena e insoddisfazione più che non diversioni (o divertimenti) dalla fatica dell'essere e dell'esserci, come avviene per Mario Lupo, ebbene è questa storia in cui l'uomo quasi si dimentica che possiamo leggere nell'immagine dell'artista. Ho ritenuto necessaria questa premessa per togliere di mezzo quel troppo colore che s'è acceso sulla figura di Mario Lupo, la cui biografia è stata usata, come tutte le biografie, per giustificare o addirittura spiegare i momenti più segreti di una pittura che va invece letta per se stessa, per quei valori di linguaggio, strutturali e formali, che certo han fondamento nell'uomo che li rende «immagine», ma che nella pur significante dimensione esistenziale dell'individuo certamente non si esauriscono.
Ecco infatti che le prime opere, i primi tentativi di Mario Lupo dopo la stagione degli esperimenti non finalizzati a una ricerca precisata, rivelano l'attento studio dei linguaggi del far moderno, o di ciò che per moderno si intendeva a cavallo degli anni Cinquanta nell'attardata provincia marchigiana ove gli entusiasmi, gli stravolgimenti, le generose sperimentazioni che coinvolgevano gli artisti dei grandi centri italiani giungevano come un'eco attutita, filtrata dal peso di tradizioni spesse e resistenti. I disegni, costruiti con qualche solidità scolastica, rivelano l'impegno del giovane ad uscire non disarmato da una fase in cui la tentazione del bozzetto e dell'aneddotica è oggettivamente trascinante. Vi è un foglio con l'immagine di oggetti d'uso quotidiano, una tovaglia, alcune posate, una brocca con bicchiere, un vassoio di frutta. Si direbbe, a descriverlo così, un disegno naturalistico e invece è uno studio sapiente di forme calate in uno spazio indefinito, colte nella loro icasticità e nel loro distacco di elementi plastici autosufficienti. È come se Mario Lupo avesse meditato non sulle cose, ma sui loro valori plastici. Infatti questo disegno del 1951 è appunto riconducibile a quella tradizione novecentesca, di quotidiana metafisica, che in quegli anni permaneva, sia pure contestata, nella tradizione italiana del far moderno, ancora legata agli ordini del classicismo, rivisitato magari attraverso la lezione di Cézanne. Due anni prima, nel 1949, Lupo aveva tratto un dipinto da una natura morta cézanniana, «Fiori e frutti». Da quello studio aveva certo ricavato motivi per correggere, e per riportare a precise solidità d'impianto, le suggestioni naturalistiche che gli potevano venire da certo interesse descrittivo che in quegli anni si rivelava anche nel gusto del bozzetto, del quadro di genere, della nota di impressione che l'autodidatta veniva coltivando più per impulso al racconto che non con l'intento di districare le problematiche proprie del segno e della composizione. Ma già all'aprirsi degli anni Cinquanta i dipinti di Mario Lupo rivelano una matrice tutt'altro che «ingenua» o abbandonata al puro estro. Alcune opere sono precisa testimonianza della sua attenzione per le soluzioni intellettuali — e perfino intellettualistiche — che in quegli anni si ponevano alla base del rinnovamento di tanta parte dell'arte italiana che scopriva, sull'onda dell'interesse per il cubismo, dimensioni inedite e possibilità di espressioni svincolate da modelli che potevano avvertirsi come provinciali. Composizione geometrica del 1951 e la Natura morta cubista del 1952 sono lì a dimostrare quanto sia gratuita l'affermazione, troppo ripetuta dai biografi, che la pittura di Lupo sia priva di ascendenze o che non si inserisca in una ricerca che è stata di tanti italiani in quegli anni. Va da sé che l’artista tendeva ad una propria autonomia espressiva, ma se questa autonomia non si fosse nutrita di riferimenti e riscontri con la cultura del suo tempo sarebbe stata cosa ben povera e ben poco significante. Trovare invece il giovane autodidatta in sintonia, in quei primi anni del dopoguerra, con ricerche formali avanzate (ecco la dimensione neocubista avvertita al di fuori di ogni impegno ideologico, ma indagata con acuta volontà intellettuale) è un fatto che dimostra la capacità di Mario Lupo di non lasciarsi andare soltanto all'azzardo dei sentimenti, ma anche di sapere esercitare un controllo spesso rigoroso sulle forme. Queste stanno al racconto come un filtro in cui la sensazione diretta passa e si depura da sempre incombenti rischi di ridondanza narrativa. Infatti, dove questi non vengono evitati, si registra una caduta di tensione, uno scarto nell'aneddotica, una genericità di impianti: le stesse componenti, insomma, che fan scrivere giustamente al più acuto studioso dell'opera di Mario Lupo, Giovanni Maria Farroni: «è una pittura semplice, perfino a volte un po' ingenua, se vogliamo, quella che si colloca nell'arco di tempo che va dal 1953-54 fino al 1960. Colori teneri, rosati, giallini, verdi acqua, cilestrini, grigio perlati, ma dosati nelle campiture, nelle masse e distribuiti con equilibrio armonico che è già molto di più di un dipingere da dilettante autodidatta». Va detto che il riscatto d'ingenuità avviene proprio attraverso un'analisi di strutture che porterà Mario Lupo non solo ad adeguare a queste i toni e lo spessore stesso della materia, ma a sperimentare soluzioni «colte» proprie di una tradizione di chiarismo marchigiano che già in quegli anni era impersonata al massimo di raffinatezza da Francesco Rossini.
Si potrebbero utilmente confrontare certi Cantieri, certe Spiaggie, certe Marine con i capanni striati e i fantasmi lievi delle barche tirate in secco dipinti da Rossini proprio in quello scorcio degli anni Cinquanta, con opere d'analogo tema composte da Mario Lupo nello stesso periodo. Si avrà un altro punto di riferimento per dimostrare che Lupo non è un artista isolato da un contesto d'arte e di cultura, al quale sa dare la propria personale risposta, anche indipendentemente dal rapporto, del resto anch'esso significativo e determinante, con Bruno Fanesi. Già nel 1954, con Il Faro di Ortona, Nel cantiere e Porticciolo, Mario Lupo si avventura in composizioni dove s'avverte l'intento strutturale. Il colore cala sul quadro come una patina, al di fuori di ogni intento naturalistico. Anzi, è ancora del 1954 un dipinto in cui serpeggia una vena d'ironia che coinvolge la stessa prospettiva Sulla spiaggia in soluzioni raffinatamente «primitivistiche». Più evidente ancora è la vocazione alla struttura ora coltivata da Mario Lupo nella serie di fantomatici Studi prospettici composti nel 1955. Sono architetture deserte, tagliate da intense striature cromatiche che sottolineano implacabili linee di fuga e masse di volumi che, ammorbiditi ma non più dimenticati, ritroveremo nelle soluzioni di paesaggio e di natura morta degli anni seguenti Cabine, Composizione, L'imbuto e si coaguleranno nelle belle sintesi, al limite dell'astrattismo lirico, in due tra le più convincenti prove dell'artista, i piccoli Paesaggi di materia gemmata dello stesso 1958. A questi si accompagna un'altra opera di straordinaria invenzione plastica e cromatica, Il burattino, in cui emerge, oltre alla strutturazione scenografica che avrà poi tanta parte nella evoluzione dell'opera di Mario Lupo, anche una capacità di amara sintesi e d'ironia, tanto più tragica quanto più allontanata nella dimensione del grottesco. In questo momento l'artista è lontanissimo dall'impostazione chiarista, che tuttavia permane in una serie di opere importanti eseguite fino a tutta la prima metà degli anni Sessanta (Ritratto di Riccardo 1959, Pannocchie 1960, Angolo di Pesaro 1962, Verso la scuola 1962, Marina con vele 1963). A queste si alternano opere in cui la pasta pittorica si raccoglie in masse più solide e spesse, come avveniva nei due Paesaggi del 1958 già ricordati, e l'atmosfera non si fa più svanente nel monocromato ma si costituisce per alternanze, sovrapposizioni, e anche contrapposizioni di materia: come avviene nel paesaggio del 1962 Giulianova Alta ove i piani diversi dell'opera si scalano a seconda della densità che la materia-colore viene ad assumere nelle diverse zone del quadro.
In questi anni, di riflessione ma anche di formazione, compaiono alcune composizioni scabre e rugose, anticipate da un’opera sobria e severa, del tutto atipica fra quelle fin qui dipinte da Mario Lupo, come Centauri all'arrivo del 1962.
A questo punto l'artista compie una scelta tecnica che dai suoi esegeti è ritenuta di grande importanza, l'uso cioè della tela olona che egli prepara da sé creandosi il supporto ideale per una pittura che si avvia a farsi sempre più scabra e sempre più intrisa di umori terragni e «popolari». Non mi sembra, ovviamente, che le scelte tecniche siano indifferenti nell'opera di un artista, ma forse a determinare la svolta da una pittura rarefatta e comunque preziosa anche quando Mario Lupo alternava all'uso dei pennelli quello della spatola, è stato il desiderio dell'artista di recuperare qualcosa delle proprie radici tornando, con più studiati mezzi, al racconto di storie e di situazioni vissute che erano già state oggetto dei suoi primi disegni.
A questo punto è forse necessaria una riflessione sull'atteggiamento che l'artista tiene verso se stesso e nei confronti di un lavoro d'arte che assume sempre più importanza nella sua vita e che finirà per essere quello a cui Lupo si dedica, lasciando ogni altra attività. Non si tratta più ormai di cercare un'evasione dal o nel quotidiano, di assumere l'arte come unico e solo punto di riferimento del vivere. L'artista sente di essere uscito di minorità, di avere maturato strumenti ed esperienze sufficienti per scegliere la propria immagine all'interno di una realtà di memoria che gli appartiene da sempre. Le preoccupazioni formali si fanno meno assillanti e Lupo può tornare con sguardo confidente a quel mondo di povere cose e di poveri oggetti, a quelle scene di vita semplice e forte che sono state le immagini della sua giovinezza. Non stupisce che vi torni con intento di realista, ma con lo sguardo nostalgico del ricordo di situazioni e di eventi che nella memoria si semplificano al massimo e si spogliano del dato intellettualistico — del resto presente come filtro ormai ineliminabile — per attingere verità più sognate che reali.
Le Marine, i Paesi, anche le Nature morte che egli dipinge in questo periodo, sono immagini di relitti della memoria assai più che non testimonianze di un reale quotidiano ormai trascinato, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, alla imagerie della società affluente. Questa viene scartata o sottintesa nei lavori di Mario Lupo. Sulle sue spiagge compaiono i resti minacciati di casupole di pescatori in rovina, povere barche abbandonate sulla rena, strette di case aggrappate alla collina, scene della vita infantile colte come attraverso un velo di sogno. Ecco La barca rossa, Marina in giallo, Case in collina, Colonia marina del 1964, immagini che sembrano sottratte al tempo e alla contingenza per essere riportate a una dimensione antica e incontaminata. Così è per i gesti e gli atteggiamenti rituali delle Donne in attesa che cominciano a comparire con tutto il loro sottinteso allegorico proprio in questi anni nelle tele di Mario Lupo. Pur mantenendosi l'impronta chiarista in molte opere (Le canne, 1964; Marina, 1965; Sosta sulla riva, 1965; Marina con vele, 1966) in altre i colori e la materia si inturgidiscono, prendono una consistenza di terra, di sabbia e di mota che li rende prepotentemente immaginari quanto «veri». II passaggio dal naturalismo al verismo (qualcuno parlerà di pittura verghiana), ma di un verismo che presuppone la scelta di motivi privilegiati, si ha in questo momento in cui Mario Lupo, rotto l'incanto delle finezze più propriamente formali, usa la pittura come strumento di racconto volto al pathos. Può essere riflessione di antiche malinconie (Maschera triste, 1965) o sull'eterno, duro svolgersi delle stagioni che scuotono e tormentano l'ambiente dell'uomo (Paesaggio invernale, 1965) o sull'antica fatica del mare e sul dolore della gente rassegnata a lente condanne (Preparativi, Pescatori, ll mare nero, Donne in attesa, tutti del 1966). I colori si fanno irreali e l'opera, scabra e terrosa, s'ammanta di tonalità brunastre, azzurrognole, di verde acido che la trasportano in atmosfere senza tempo, di memoria appunto. Anche gli oggetti subiscono la stessa sorte di spaesamento, perdono d'umiltà e assumono il ruolo di straniti protagonisti. Ciò che ancora vi è di naturalistico nella Natura morta con pere e nei Peperoni del 1965, si fissa nell'accento «verista» (quindi di interpretazione e di esaltazione dell'oggetto prescelto come testimone di realtà costruita) de La mia tavolozza, 1965 e di Peperoncini del 1966, fra le opere di più alta invenzione formale e cromatica di questo periodo. I colori accesi che le caratterizzano, e che valgono come segnali di un «particolare» volutamente isolato nel generale contesto di pittura atmosferica di Mario Lupo, ricompaiono con prepotenza anche in lavori di più dispiegato intento narrativo. Ecco il rosso inatteso delle reti ne i Pescatori del 1966, ecco il tocco aranciato di poveri arbusti ne Il mare nero dello stesso anno.
Da questo momento in avanti si alterneranno nella pittura di Mario Lupo, affondata nelle luci bluastre, violacee, imbrunite nei grigi e nelle terre, improvvise fratture di luce che spezzano il tono uniforme, contratto, delle superfici, sempre più chiuse in una loro dannazione incupita. Le composizioni delle Donne in attesa ne sono l'emblematica immagine: relitti fra relitti di un mondo serrato su se stesso, immerso in atmosfere di povera leggenda. L'immagine rituale, insomma, predomina in queste tele e non fa meraviglia se in esse compare anche, tradotto in termini di laica religiosità, il tema di una iconografia della pietas e del sacro e popolare che già aveva avuto un antecedente nella simbologia dolente de Il mare nero, allusiva all'affondamento di un peschereccio. I toni, i ritmi compositivi, il colore ghiacciato, l'atmosfera ruvidamente tesa dei dipinti con le donne dei pescatori sono trasposti in significativo parallelo nell'opera San Francesco e l'angelo a dimostrazione che ancora una volta il «verismo» di Mario Lupo è un verismo visionario. Se non bastasse, ecco i Pulcinella in polemica, un olio del 1969 in cui sogno e realtà, memorie e patetismo si fondono in armonie quasi surreali, come avviene anche nella sintesi drammatica di Maschera triste del 1971. Ormai Mario Lupo ha maturato un proprio linguaggio, particolarissimo e riconoscibile, in cui resta solo lieve traccia delle antiche dolcezze formali, alle quali si sostituiscono più densi bagliori del sentimento, sostenuti ora da uno scoperto andar di forza del pittore che sente di battere una strada tutta propria. Può quindi esprimersi con quel vigore e quella rabbia «popolare» che sente ormai di poter riscattare nei modi propri di una pittura tanto solida da far pensare a quella dei grandi muralisti messicani, di Siqueiros in particolare, del quale Mario Lupo deve sentirsi congenere quando si esprime nell'impeto dei sentimenti elementari, come avviene nella laica maternità del dipinto L'ultima speranza (1971) o nel racconto del rito (Benedizione del mare, 1972) o nelle parabole della sacralità popolare (Annunciazione, 1973). La ritualità è comunque il segno determinante di questo periodo in cui comincia a trasparire in termini via via più dilatati la dimensione allegorica (Epilogo sulla riva, La morte del gabbiano, 1973) che trova nella serie dei Gabbiani uno dei suoi motivi più scopertamente allusivi (Sole freddo, 1974 e Annunciazione, ove la chiamata viene dall'uccello del mare). Può essere curioso notare che proprio mentre Mario Lupo accentua la componente simbolica, la critica insiste sulla matrice «verghiana». Bisognerà attendere un lucido saggio di Dino Carlesi, scritto nel 1977, per recuperare il significato delle simbologie di Lupo ben oltre le convenzioni del populismo: “Se è chiaro che il mondo di Lupo è quello del mare, della sua gente oscura e sublime per intensità di sentimenti e predisposizione alle attese silenziose, è anche vero che questi cupi silenzi dell'uomo di mare sono motivi solo apparentemente centrali nel vasto contesto della sua produzione: in realtà le donne bloccate in primo piano o che smarriscono i volti nell'ombra dei grembi o quelle chine e gravate da pesi enormi che vanno oltre la vecchiaia e l'assenza, tutte tradiscono l'attesa di qualcosa di più solenne e di più disperato (di cui l'uomo e lo sposo o il figlio sono solo un aspetto casuale e scatenante); direi che tradiscono attese ancestrali di una fine inevitabile, di quella quotidiana ed esistenziale perdita di felicità che coincide, al limite, con la fine dell'esistenza...”
Ecco che le «storie del mare» narrate da Mario Lupo si aprono a più ampie significazioni. Non è più il dramma umano a gravare le lunghe attese e le chiuse solitudini di un mondo senza età e senza tempo, ma la maledizione (o la benedizione) quotidiana dell'essere e dell'esserci, trasformata in simbolo, in mito ancestrale. A questa dimensione allargata ben oltre l'episodico corrisponde naturalmente quello che lo stesso Dino Carlesi definisce il «controcanto» di momenti tenerissimi d'immagine, di luci e di colori fioriti, perché il mito è sempre corale e la coralità del tragico non può non accompagnarsi a quella del sogno, anche del sogno che si apre sulla quotidianità. È in questi anni che i dipinti di Mario Lupo si animano di inattese luci, si aprono ad atmosfere sognanti dove l'irreale predomina sul senso della realtà, come avviene in ogni dilatato momento dell'immagine che travalica oltre il racconto per farsi segno di una totalità ove ogni cosa confluisce, passato e presente, fantasmi della memoria e ricordi assiepati in ordini straniti. Ha ragione Francesco Lista quando, in un saggio del 1977, parla di «un linguaggio idoneo a decantare le cose e ad esprimere le loro significazioni anche remote», ma io sarei anche più drastico e direi che proprio e solo le «significazioni remote» ora contano per Mario Lupo. La realtà era già trasfigurata in simbolo nella grande tela Occhi di mare dipinta nel 1974 ove la donna, il mare e il gabbiano sono rappresentati nella loro «verità» mitica di emblemi antichissimi, vorrei dire eterni, della metafisica mediterranea. Decisamente simbolistica è l'opera Chiaro di luna dello stesso anno, anche se qui nella figura del nudo femminile trapassa qualche memoria della dura specie delle «donne in attesa».
Queste riprendono infatti peso di realtà in opere come Solitudine del 1975 ove la donna, il mare e il gabbiano sembrano, ma è solo apparenza, sottrarsi alla svanente dimensione della memoria. In realtà Mario Lupo ha ormai costruito una struttura di immagine per la quale ogni fatto, ogni episodio, ogni situazione, ogni oggetto, vengono filtrati, depurati dal peso della mera citazione iconografica e si sublimano in una più alta e corale leggenda. Corale attesa è appunto il significativo titolo del grande dipinto murale che Mario Lupo imprende nel 1976, raccogliendo in una sintesi potente e dolcissima le sue memorie d'immagini: le donne, ma anche i fanciulli, i fiori, i gabbiani, l'involucro azzurro del mare e del cielo in cui si fondono e si confondono i ritmi di una laica ritualità. È preceduto, questo grande dipinto, da una esplosione di colori e di immagini che ormai hanno rapporto soltanto con la visionaria realtà che l'artista coltiva in se stesso e che si esprime nelle metafore d'ardita concezione formale rappresentate da dipinti come Il gabbiano nero, ma specialmente dalla serie di opere che s'accendono di nuovi colori e fioriscono di improvvise dolcezze (Primavera, Primavera in collina, 1977) e di inattese lievità. Sono le stesse suggestioni che hanno consentito a Mario Lupo di disegnare le scene per il balletto di Caterina Ricci I gabbiani (1975) ove il gioco del vento, della luce e delle trasparenze d'atmosfera si libera pienamente togliendo peso alle cose, che restano come simboli d'un fluido sentire, echi di una sottile musicalità. Ora le due anime dell'artista, quella della dolce sensibilità, dell'astrazione lirica e l'altra, che lo porta con la memoria, ma ormai soffusa, al mondo impietrito del lavoro, della fatica, dello sgomento e della miseria senza possibile sollievo, queste due anime, dicevo, si esprimono in una visione sottratta alle determinazioni di tempo, di spazio e di luce. Mario Lupo, insomma, ha raggiunto una sintesi puramente pittorica, entro la quale ripone, come in una scatola colma d'echi, la sua memoria delle cose vissute, ormai riviste soltanto attraverso quel particolare e incantato diaframma che è costituito dalla visionarietà del pittore.
Non tutti i critici si avvedono di questo determinante trapasso ma qualcuno, come il già ricordato Francesco Lista, ne coglie benissimo il senso quando parla di «astrazione fatta segno e cromia». Mario Lupo, insomma, ormai dipinge per ritmi puri per i quali l'illusione e l'allusione iconografica perdono peso e significazione descrittiva. Non è un caso se l'ultima, potente sintesi, avviene con la composizione del ciclo dedicato agli Olivastri di Torre Mileto, metafora scoperta della natura e delle sue forze in cui si riassumono tutte le vicende passate e presenti di una storia di drammi e di dolcezze, d'uragani e di pace, di sole e di vento. Una storia che non ha più bisogno dell’uomo per essere detta e rappresentata.

PERCORSO ARTISTICO



Testo di Franco Solmi, dal libro “L’immagine corale” - 1983
La vicenda pittorica di Mario Lupo si può evidentemente leggere in connessione con quella dell'uomo di vita travagliata che cerca, perché la intuisce per sorgiva apprensione, una strada inconsueta nel groviglio di crocicchi che un quotidiano non esaltante gli intreccia attorno. Ma sarebbe storia comune e non significante. Personalmente non credo alle predestinazioni, possibili da verificare soltanto allorché si è in grado di dare per acquisita la somma di vicende e di fatti che ne son seguiti. La predestinazione misurata dal punto d'arrivo, a destino compiuto o quasi, è pura tautologia. Cosa diversa è la vocazione, che ha bisogno di essere coltivata e patita fra incertezze, entusiasmi, fatiche, delusioni e tradimenti infiniti. L'essere chiamati all'arte, come a qualsiasi altra umana disciplina, non significa affatto che si trovino in noi già perfetti gli strumenti per operare. Occorre che le situazioni, le persone, gli eventi si dispongano per consentirci di tentare immagini che sono interrogazioni, domande su di noi e sul nostro mondo, alle quali non è un obbligo o una consolazione dar risposta da artista. Più spesso, anzi, la vocazione resta una domanda elusa, neppure disperante, da coltivarsi come innocente vagheggiamento di ciò che si potrebbe essere e non si è, di ciò che si potrebbe essere stati e non si è stati. Questa è la dimensione aggraziata o presuntuosa in cui si colloca il naïf pervicace o il dilettante appagato. Ma quando l'arte è cosa vissuta, maturata fra difficoltà e fraintendimenti, quando procura pena e insoddisfazione più che non diversioni (o divertimenti) dalla fatica dell'essere e dell'esserci, come avviene per Mario Lupo, ebbene è questa storia in cui l'uomo quasi si dimentica che possiamo leggere nell'immagine dell'artista. Ho ritenuto necessaria questa premessa per togliere di mezzo quel troppo colore che s'è acceso sulla figura di Mario Lupo, la cui biografia è stata usata, come tutte le biografie, per giustificare o addirittura spiegare i momenti più segreti di una pittura che va invece letta per se stessa, per quei valori di linguaggio, strutturali e formali, che certo han fondamento nell'uomo che li rende «immagine», ma che nella pur significante dimensione esistenziale dell'individuo certamente non si esauriscono.
Ecco infatti che le prime opere, i primi tentativi di Mario Lupo dopo la stagione degli esperimenti non finalizzati a una ricerca precisata, rivelano l'attento studio dei linguaggi del far moderno, o di ciò che per moderno si intendeva a cavallo degli anni Cinquanta nell'attardata provincia marchigiana ove gli entusiasmi, gli stravolgimenti, le generose sperimentazioni che coinvolgevano gli artisti dei grandi centri italiani giungevano come un'eco attutita, filtrata dal peso di tradizioni spesse e resistenti. I disegni, costruiti con qualche solidità scolastica, rivelano l'impegno del giovane ad uscire non disarmato da una fase in cui la tentazione del bozzetto e dell'aneddotica è oggettivamente trascinante. Vi è un foglio con l'immagine di oggetti d'uso quotidiano, una tovaglia, alcune posate, una brocca con bicchiere, un vassoio di frutta. Si direbbe, a descriverlo così, un disegno naturalistico e invece è uno studio sapiente di forme calate in uno spazio indefinito, colte nella loro icasticità e nel loro distacco di elementi plastici autosufficienti. È come se Mario Lupo avesse meditato non sulle cose, ma sui loro valori plastici. Infatti questo disegno del 1951 è appunto riconducibile a quella tradizione novecentesca, di quotidiana metafisica, che in quegli anni permaneva, sia pure contestata, nella tradizione italiana del far moderno, ancora legata agli ordini del classicismo, rivisitato magari attraverso la lezione di Cézanne. Due anni prima, nel 1949, Lupo aveva tratto un dipinto da una natura morta cézanniana, «Fiori e frutti». Da quello studio aveva certo ricavato motivi per correggere, e per riportare a precise solidità d'impianto, le suggestioni naturalistiche che gli potevano venire da certo interesse descrittivo che in quegli anni si rivelava anche nel gusto del bozzetto, del quadro di genere, della nota di impressione che l'autodidatta veniva coltivando più per impulso al racconto che non con l'intento di districare le problematiche proprie del segno e della composizione. Ma già all'aprirsi degli anni Cinquanta i dipinti di Mario Lupo rivelano una matrice tutt'altro che «ingenua» o abbandonata al puro estro. Alcune opere sono precisa testimonianza della sua attenzione per le soluzioni intellettuali — e perfino intellettualistiche — che in quegli anni si ponevano alla base del rinnovamento di tanta parte dell'arte italiana che scopriva, sull'onda dell'interesse per il cubismo, dimensioni inedite e possibilità di espressioni svincolate da modelli che potevano avvertirsi come provinciali. Composizione geometrica del 1951 e la Natura morta cubista del 1952 sono lì a dimostrare quanto sia gratuita l'affermazione, troppo ripetuta dai biografi, che la pittura di Lupo sia priva di ascendenze o che non si inserisca in una ricerca che è stata di tanti italiani in quegli anni. Va da sé che l’artista tendeva ad una propria autonomia espressiva, ma se questa autonomia non si fosse nutrita di riferimenti e riscontri con la cultura del suo tempo sarebbe stata cosa ben povera e ben poco significante. Trovare invece il giovane autodidatta in sintonia, in quei primi anni del dopoguerra, con ricerche formali avanzate (ecco la dimensione neocubista avvertita al di fuori di ogni impegno ideologico, ma indagata con acuta volontà intellettuale) è un fatto che dimostra la capacità di Mario Lupo di non lasciarsi andare soltanto all'azzardo dei sentimenti, ma anche di sapere esercitare un controllo spesso rigoroso sulle forme. Queste stanno al racconto come un filtro in cui la sensazione diretta passa e si depura da sempre incombenti rischi di ridondanza narrativa. Infatti, dove questi non vengono evitati, si registra una caduta di tensione, uno scarto nell'aneddotica, una genericità di impianti: le stesse componenti, insomma, che fan scrivere giustamente al più acuto studioso dell'opera di Mario Lupo, Giovanni Maria Farroni: «è una pittura semplice, perfino a volte un po' ingenua, se vogliamo, quella che si colloca nell'arco di tempo che va dal 1953-54 fino al 1960. Colori teneri, rosati, giallini, verdi acqua, cilestrini, grigio perlati, ma dosati nelle campiture, nelle masse e distribuiti con equilibrio armonico che è già molto di più di un dipingere da dilettante autodidatta». Va detto che il riscatto d'ingenuità avviene proprio attraverso un'analisi di strutture che porterà Mario Lupo non solo ad adeguare a queste i toni e lo spessore stesso della materia, ma a sperimentare soluzioni «colte» proprie di una tradizione di chiarismo marchigiano che già in quegli anni era impersonata al massimo di raffinatezza da Francesco Rossini.
Si potrebbero utilmente confrontare certi Cantieri, certe Spiaggie, certe Marine con i capanni striati e i fantasmi lievi delle barche tirate in secco dipinti da Rossini proprio in quello scorcio degli anni Cinquanta, con opere d'analogo tema composte da Mario Lupo nello stesso periodo. Si avrà un altro punto di riferimento per dimostrare che Lupo non è un artista isolato da un contesto d'arte e di cultura, al quale sa dare la propria personale risposta, anche indipendentemente dal rapporto, del resto anch'esso significativo e determinante, con Bruno Fanesi. Già nel 1954, con Il Faro di Ortona, Nel cantiere e Porticciolo, Mario Lupo si avventura in composizioni dove s'avverte l'intento strutturale. Il colore cala sul quadro come una patina, al di fuori di ogni intento naturalistico. Anzi, è ancora del 1954 un dipinto in cui serpeggia una vena d'ironia che coinvolge la stessa prospettiva Sulla spiaggia in soluzioni raffinatamente «primitivistiche». Più evidente ancora è la vocazione alla struttura ora coltivata da Mario Lupo nella serie di fantomatici Studi prospettici composti nel 1955. Sono architetture deserte, tagliate da intense striature cromatiche che sottolineano implacabili linee di fuga e masse di volumi che, ammorbiditi ma non più dimenticati, ritroveremo nelle soluzioni di paesaggio e di natura morta degli anni seguenti Cabine, Composizione, L'imbuto e si coaguleranno nelle belle sintesi, al limite dell'astrattismo lirico, in due tra le più convincenti prove dell'artista, i piccoli Paesaggi di materia gemmata dello stesso 1958. A questi si accompagna un'altra opera di straordinaria invenzione plastica e cromatica, Il burattino, in cui emerge, oltre alla strutturazione scenografica che avrà poi tanta parte nella evoluzione dell'opera di Mario Lupo, anche una capacità di amara sintesi e d'ironia, tanto più tragica quanto più allontanata nella dimensione del grottesco. In questo momento l'artista è lontanissimo dall'impostazione chiarista, che tuttavia permane in una serie di opere importanti eseguite fino a tutta la prima metà degli anni Sessanta (Ritratto di Riccardo 1959, Pannocchie 1960, Angolo di Pesaro 1962, Verso la scuola 1962, Marina con vele 1963). A queste si alternano opere in cui la pasta pittorica si raccoglie in masse più solide e spesse, come avveniva nei due Paesaggi del 1958 già ricordati, e l'atmosfera non si fa più svanente nel monocromato ma si costituisce per alternanze, sovrapposizioni, e anche contrapposizioni di materia: come avviene nel paesaggio del 1962 Giulianova Alta ove i piani diversi dell'opera si scalano a seconda della densità che la materia-colore viene ad assumere nelle diverse zone del quadro.
In questi anni, di riflessione ma anche di formazione, compaiono alcune composizioni scabre e rugose, anticipate da un’opera sobria e severa, del tutto atipica fra quelle fin qui dipinte da Mario Lupo, come Centauri all'arrivo del 1962.
A questo punto l'artista compie una scelta tecnica che dai suoi esegeti è ritenuta di grande importanza, l'uso cioè della tela olona che egli prepara da sé creandosi il supporto ideale per una pittura che si avvia a farsi sempre più scabra e sempre più intrisa di umori terragni e «popolari». Non mi sembra, ovviamente, che le scelte tecniche siano indifferenti nell'opera di un artista, ma forse a determinare la svolta da una pittura rarefatta e comunque preziosa anche quando Mario Lupo alternava all'uso dei pennelli quello della spatola, è stato il desiderio dell'artista di recuperare qualcosa delle proprie radici tornando, con più studiati mezzi, al racconto di storie e di situazioni vissute che erano già state oggetto dei suoi primi disegni.
A questo punto è forse necessaria una riflessione sull'atteggiamento che l'artista tiene verso se stesso e nei confronti di un lavoro d'arte che assume sempre più importanza nella sua vita e che finirà per essere quello a cui Lupo si dedica, lasciando ogni altra attività. Non si tratta più ormai di cercare un'evasione dal o nel quotidiano, di assumere l'arte come unico e solo punto di riferimento del vivere. L'artista sente di essere uscito di minorità, di avere maturato strumenti ed esperienze sufficienti per scegliere la propria immagine all'interno di una realtà di memoria che gli appartiene da sempre. Le preoccupazioni formali si fanno meno assillanti e Lupo può tornare con sguardo confidente a quel mondo di povere cose e di poveri oggetti, a quelle scene di vita semplice e forte che sono state le immagini della sua giovinezza. Non stupisce che vi torni con intento di realista, ma con lo sguardo nostalgico del ricordo di situazioni e di eventi che nella memoria si semplificano al massimo e si spogliano del dato intellettualistico — del resto presente come filtro ormai ineliminabile — per attingere verità più sognate che reali.
Le Marine, i Paesi, anche le Nature morte che egli dipinge in questo periodo, sono immagini di relitti della memoria assai più che non testimonianze di un reale quotidiano ormai trascinato, siamo nella seconda metà degli anni Sessanta, alla imagerie della società affluente. Questa viene scartata o sottintesa nei lavori di Mario Lupo. Sulle sue spiagge compaiono i resti minacciati di casupole di pescatori in rovina, povere barche abbandonate sulla rena, strette di case aggrappate alla collina, scene della vita infantile colte come attraverso un velo di sogno. Ecco La barca rossa, Marina in giallo, Case in collina, Colonia marina del 1964, immagini che sembrano sottratte al tempo e alla contingenza per essere riportate a una dimensione antica e incontaminata. Così è per i gesti e gli atteggiamenti rituali delle Donne in attesa che cominciano a comparire con tutto il loro sottinteso allegorico proprio in questi anni nelle tele di Mario Lupo. Pur mantenendosi l'impronta chiarista in molte opere (Le canne, 1964; Marina, 1965; Sosta sulla riva, 1965; Marina con vele, 1966) in altre i colori e la materia si inturgidiscono, prendono una consistenza di terra, di sabbia e di mota che li rende prepotentemente immaginari quanto «veri». II passaggio dal naturalismo al verismo (qualcuno parlerà di pittura verghiana), ma di un verismo che presuppone la scelta di motivi privilegiati, si ha in questo momento in cui Mario Lupo, rotto l'incanto delle finezze più propriamente formali, usa la pittura come strumento di racconto volto al pathos. Può essere riflessione di antiche malinconie (Maschera triste, 1965) o sull'eterno, duro svolgersi delle stagioni che scuotono e tormentano l'ambiente dell'uomo (Paesaggio invernale, 1965) o sull'antica fatica del mare e sul dolore della gente rassegnata a lente condanne (Preparativi, Pescatori, ll mare nero, Donne in attesa, tutti del 1966). I colori si fanno irreali e l'opera, scabra e terrosa, s'ammanta di tonalità brunastre, azzurrognole, di verde acido che la trasportano in atmosfere senza tempo, di memoria appunto. Anche gli oggetti subiscono la stessa sorte di spaesamento, perdono d'umiltà e assumono il ruolo di straniti protagonisti. Ciò che ancora vi è di naturalistico nella Natura morta con pere e nei Peperoni del 1965, si fissa nell'accento «verista» (quindi di interpretazione e di esaltazione dell'oggetto prescelto come testimone di realtà costruita) de La mia tavolozza, 1965 e di Peperoncini del 1966, fra le opere di più alta invenzione formale e cromatica di questo periodo. I colori accesi che le caratterizzano, e che valgono come segnali di un «particolare» volutamente isolato nel generale contesto di pittura atmosferica di Mario Lupo, ricompaiono con prepotenza anche in lavori di più dispiegato intento narrativo. Ecco il rosso inatteso delle reti ne i Pescatori del 1966, ecco il tocco aranciato di poveri arbusti ne Il mare nero dello stesso anno.
Da questo momento in avanti si alterneranno nella pittura di Mario Lupo, affondata nelle luci bluastre, violacee, imbrunite nei grigi e nelle terre, improvvise fratture di luce che spezzano il tono uniforme, contratto, delle superfici, sempre più chiuse in una loro dannazione incupita. Le composizioni delle Donne in attesa ne sono l'emblematica immagine: relitti fra relitti di un mondo serrato su se stesso, immerso in atmosfere di povera leggenda. L'immagine rituale, insomma, predomina in queste tele e non fa meraviglia se in esse compare anche, tradotto in termini di laica religiosità, il tema di una iconografia della pietas e del sacro e popolare che già aveva avuto un antecedente nella simbologia dolente de Il mare nero, allusiva all'affondamento di un peschereccio. I toni, i ritmi compositivi, il colore ghiacciato, l'atmosfera ruvidamente tesa dei dipinti con le donne dei pescatori sono trasposti in significativo parallelo nell'opera San Francesco e l'angelo a dimostrazione che ancora una volta il «verismo» di Mario Lupo è un verismo visionario. Se non bastasse, ecco i Pulcinella in polemica, un olio del 1969 in cui sogno e realtà, memorie e patetismo si fondono in armonie quasi surreali, come avviene anche nella sintesi drammatica di Maschera triste del 1971. Ormai Mario Lupo ha maturato un proprio linguaggio, particolarissimo e riconoscibile, in cui resta solo lieve traccia delle antiche dolcezze formali, alle quali si sostituiscono più densi bagliori del sentimento, sostenuti ora da uno scoperto andar di forza del pittore che sente di battere una strada tutta propria. Può quindi esprimersi con quel vigore e quella rabbia «popolare» che sente ormai di poter riscattare nei modi propri di una pittura tanto solida da far pensare a quella dei grandi muralisti messicani, di Siqueiros in particolare, del quale Mario Lupo deve sentirsi congenere quando si esprime nell'impeto dei sentimenti elementari, come avviene nella laica maternità del dipinto L'ultima speranza (1971) o nel racconto del rito (Benedizione del mare, 1972) o nelle parabole della sacralità popolare (Annunciazione, 1973). La ritualità è comunque il segno determinante di questo periodo in cui comincia a trasparire in termini via via più dilatati la dimensione allegorica (Epilogo sulla riva, La morte del gabbiano, 1973) che trova nella serie dei Gabbiani uno dei suoi motivi più scopertamente allusivi (Sole freddo, 1974 e Annunciazione, ove la chiamata viene dall'uccello del mare). Può essere curioso notare che proprio mentre Mario Lupo accentua la componente simbolica, la critica insiste sulla matrice «verghiana». Bisognerà attendere un lucido saggio di Dino Carlesi, scritto nel 1977, per recuperare il significato delle simbologie di Lupo ben oltre le convenzioni del populismo: “Se è chiaro che il mondo di Lupo è quello del mare, della sua gente oscura e sublime per intensità di sentimenti e predisposizione alle attese silenziose, è anche vero che questi cupi silenzi dell'uomo di mare sono motivi solo apparentemente centrali nel vasto contesto della sua produzione: in realtà le donne bloccate in primo piano o che smarriscono i volti nell'ombra dei grembi o quelle chine e gravate da pesi enormi che vanno oltre la vecchiaia e l'assenza, tutte tradiscono l'attesa di qualcosa di più solenne e di più disperato (di cui l'uomo e lo sposo o il figlio sono solo un aspetto casuale e scatenante); direi che tradiscono attese ancestrali di una fine inevitabile, di quella quotidiana ed esistenziale perdita di felicità che coincide, al limite, con la fine dell'esistenza...”
Ecco che le «storie del mare» narrate da Mario Lupo si aprono a più ampie significazioni. Non è più il dramma umano a gravare le lunghe attese e le chiuse solitudini di un mondo senza età e senza tempo, ma la maledizione (o la benedizione) quotidiana dell'essere e dell'esserci, trasformata in simbolo, in mito ancestrale. A questa dimensione allargata ben oltre l'episodico corrisponde naturalmente quello che lo stesso Dino Carlesi definisce il «controcanto» di momenti tenerissimi d'immagine, di luci e di colori fioriti, perché il mito è sempre corale e la coralità del tragico non può non accompagnarsi a quella del sogno, anche del sogno che si apre sulla quotidianità. È in questi anni che i dipinti di Mario Lupo si animano di inattese luci, si aprono ad atmosfere sognanti dove l'irreale predomina sul senso della realtà, come avviene in ogni dilatato momento dell'immagine che travalica oltre il racconto per farsi segno di una totalità ove ogni cosa confluisce, passato e presente, fantasmi della memoria e ricordi assiepati in ordini straniti. Ha ragione Francesco Lista quando, in un saggio del 1977, parla di «un linguaggio idoneo a decantare le cose e ad esprimere le loro significazioni anche remote», ma io sarei anche più drastico e direi che proprio e solo le «significazioni remote» ora contano per Mario Lupo. La realtà era già trasfigurata in simbolo nella grande tela Occhi di mare dipinta nel 1974 ove la donna, il mare e il gabbiano sono rappresentati nella loro «verità» mitica di emblemi antichissimi, vorrei dire eterni, della metafisica mediterranea. Decisamente simbolistica è l'opera Chiaro di luna dello stesso anno, anche se qui nella figura del nudo femminile trapassa qualche memoria della dura specie delle «donne in attesa».
Queste riprendono infatti peso di realtà in opere come Solitudine del 1975 ove la donna, il mare e il gabbiano sembrano, ma è solo apparenza, sottrarsi alla svanente dimensione della memoria. In realtà Mario Lupo ha ormai costruito una struttura di immagine per la quale ogni fatto, ogni episodio, ogni situazione, ogni oggetto, vengono filtrati, depurati dal peso della mera citazione iconografica e si sublimano in una più alta e corale leggenda. Corale attesa è appunto il significativo titolo del grande dipinto murale che Mario Lupo imprende nel 1976, raccogliendo in una sintesi potente e dolcissima le sue memorie d'immagini: le donne, ma anche i fanciulli, i fiori, i gabbiani, l'involucro azzurro del mare e del cielo in cui si fondono e si confondono i ritmi di una laica ritualità. È preceduto, questo grande dipinto, da una esplosione di colori e di immagini che ormai hanno rapporto soltanto con la visionaria realtà che l'artista coltiva in se stesso e che si esprime nelle metafore d'ardita concezione formale rappresentate da dipinti come Il gabbiano nero, ma specialmente dalla serie di opere che s'accendono di nuovi colori e fioriscono di improvvise dolcezze (Primavera, Primavera in collina, 1977) e di inattese lievità. Sono le stesse suggestioni che hanno consentito a Mario Lupo di disegnare le scene per il balletto di Caterina Ricci I gabbiani (1975) ove il gioco del vento, della luce e delle trasparenze d'atmosfera si libera pienamente togliendo peso alle cose, che restano come simboli d'un fluido sentire, echi di una sottile musicalità. Ora le due anime dell'artista, quella della dolce sensibilità, dell'astrazione lirica e l'altra, che lo porta con la memoria, ma ormai soffusa, al mondo impietrito del lavoro, della fatica, dello sgomento e della miseria senza possibile sollievo, queste due anime, dicevo, si esprimono in una visione sottratta alle determinazioni di tempo, di spazio e di luce. Mario Lupo, insomma, ha raggiunto una sintesi puramente pittorica, entro la quale ripone, come in una scatola colma d'echi, la sua memoria delle cose vissute, ormai riviste soltanto attraverso quel particolare e incantato diaframma che è costituito dalla visionarietà del pittore.
Non tutti i critici si avvedono di questo determinante trapasso ma qualcuno, come il già ricordato Francesco Lista, ne coglie benissimo il senso quando parla di «astrazione fatta segno e cromia». Mario Lupo, insomma, ormai dipinge per ritmi puri per i quali l'illusione e l'allusione iconografica perdono peso e significazione descrittiva. Non è un caso se l'ultima, potente sintesi, avviene con la composizione del ciclo dedicato agli Olivastri di Torre Mileto, metafora scoperta della natura e delle sue forze in cui si riassumono tutte le vicende passate e presenti di una storia di drammi e di dolcezze, d'uragani e di pace, di sole e di vento. Una storia che non ha più bisogno dell’uomo per essere detta e rappresentata.