GLI AMICI RICORDANO
(volumetto edito dalla Stamperia dell’Arancio – novembre 1993)
DEDICATO A MARIO LUPO di Roberto Farroni
È già passato un anno ma il ricordo di Mario è quanto mai vivo e presente. Questa piccola ma significativa raccolta di poesie è l’omaggio che i famigliari gli dedicano nel primo anniversario della sua scomparsa.
In questi dodici mesi ho pensato spesso a Mario e alla tragedia che ha messo così a dura prova la sua adorata famiglia. Ho ricordato il suo sorriso, la sua voce, i suoi gesti e la sua grande chioma color argento. L’ho visto dipingere il suo mondo popolato di pescatori, di donne in attesa, di mare e di gabbiani, nel suo studio, all’interno dell’ex Teatro dell’Arancio, in piazza Peretti, a Grottammare. Così come l’ho rivisto suonare la chitarra e sentito raccontare storie in dialetto abruzzese, nella sua grande casa di campagna, dove amava ritrovare gli amici per trascorrere momenti di serenità.
Fisicamente, Mario, non è più qui con noi… Ma il suo spirito, la sua anima, non ci abbandonerà mai… Non potrà mai distaccarsi da noi la gioia del ricordo dei tanti momenti trascorsi insieme… E quanto più tempo passerà da quel maledetto sedici ottobre novantadue tanto più sarà “presente” e vicino a tutti noi.
I quadri che ci ha lasciato continuano a parlare per lui. E continuano a raccontarci la storia della sua vita. Della vita di un uomo che ha provato, sulla propria pelle, i segni del sacrificio, del dolore e delle umiliazioni. E che anche quando le cose “giravano” bene non ha mai voluto dimenticare i periodi in cui la fortuna gli voltava le spalle.
Per testimoniare il “riscatto” da una condizione difficile, Lupo, ha elevato a simbolo della vita, il mare; della speranza, il gabbiano; del dolore, quelle donne: madri, spose, sorelle, compagne dei pescatori. Le ragioni della speranza, della solidarietà, dell’essere uomini in mezzo ad altri uomini, con le proprie gioie ed i propri dolori sono gli autentici valori della vita. E Mario, con la sua pittura, ha dato voce a questo universo tribolato.
La vicenda artistica di Mario Lupo rispecchia un raro esempio di costanza, di forza d’animo, d’impegno a rimanere, nonostante spinte e sollecitazioni interessate.
Sempre fedele a ste stesso, al suo credo in una pittura fatta di verità, che non si esaurisce affatto nei valori formali, ha dipinto, senza sosta, miglia e miglia di tela olona, in un’epoca in cui - come più volte ha affermato un insigne studioso marchigiano, Pietro Zampetti - l’ansia di rinnovarsi ad ogni costo brucia molti artisti, novelli sifisi portati a ritenere di aver finalmente trovato quella verità che invece sfugge loro di mano, pesantemente, di volta in volta; Mario ha saputo mantenersi coerente, affrontando con tanta umiltà le numerose prove a cui si è sottoposto, lavorando quotidianamente per ore ed ore, distruggendo, a volte, quei dipinti che non riteneva riusciti secondo il suo disegno mentale. Ed è proprio l’umiltà, sua dote innata, che gli ha permesso di raggiungere una posizione di prestigio nella vicenda artistica italiana.
Dalle vertigini di quei cieli percorsi dall’albatro, il cui biancore contro il sole appare come una lama accecante che volteggia sull’orizzonte, la fantasia del pittore, ci ha indicato un popolo di donne che attende il suono della campana del destino nell’atteggiamento di chi ha rinunciato alla lotta. Ma questa è soltanto un’osservazione di superficie, dato che le “donne” di Lupo continuano a rappresentare, invece, l’attesa e, quindi, la speranza di tutti gli esseri umani in un mondo migliore dove la macchina infernale che abbiamo messo in moto con la civiltà della corsa tecnologica, dei consumi e degli sprechi non annulli i valori eterni della ragione e del sentimento. Aver affidato alle donne dei pescatori questo messaggio di speranza e di riscatto in rappresentanza di tutto il genere umano, è un grande merito dell’artista.
Lupo dipingeva traendo emozioni, vere e profonde, in un rapporto diretto con il cuore. E la gente lo apprezzava e lo amava per questo. Il suo mondo pittorico non era una felice trovata su cui si è mai adagiato ma l’interpretazione autentica della sua matrice culturale di uomo di mare.
Egli cominciò a dipingere negli anni Cinquanta quando, ad Ancona, lavorava come maresciallo di marina della Guardia di Finanza. Periodi assai duri per i cosiddetti “servitori dello Stato”. Tanto che era difficile, per lui, comprare tele, colori e pennelli.
Dipingeva su tutto ciò che riusciva a trovare: vecchie lenzuola, tovaglie… Finché non ebbe la felice idea di utilizzare la tela olona. La tela che viene usata, sulle imbarcazioni, per incappucciare i verricelli. E da quel giorno ha sempre fatto realizzare le tele per i suoi dipinti con quel materiale.
Chi frequentava il suo studio ha potuto sicuramente vedere questi pezzi di tela immersi nella vasca per essere puliti prima di diventare il supporto “naturale” dei suoi quadri.
Ecco perché la grande monografia che, nel 1978, Mario Lupo volle per festeggiare i suoi venticinque anni con la pittura fu felicemente intitolata Qualche miglio di tela olona.
Ed in quell’occasione, a parlare dell’opera di Lupo, intervenne Franco Solmi allora direttore della Galleria d’Arte Moderna di Bologna, anche lui scomparso qualche tempo fa.
Fu una grande festa che segnò una tappa ed insieme una svolta nella vicenda artistica del pittore abruzzese di nascita e marchigiano di adozione. Da allora la critica ed il collezionismo rivolsero al lavoro di Mario Lupo un’attenzione, direi anzi, un rispetto diverso che nel passato. E Mario seppur consapevole di questa “responsabilità”, di questo nuovo ruolo, non venne mai meno alla sua straordinaria umiltà. La dedica che scrisse a Giovanni Maria Farroni, suo grande amico e curatore di quella monografia è quanto mai eloquente: «A Giovanni, con sentimenti di fraterna amicizia e con il sincero proposito di meritare anche in avvenire la tanta fiducia che egli ha sempre generosamente dato a quest’uomo-pittore. Mario».
E Lupo, coerente con la sua volontà, scoprì un nuovo motivo d’ispirazione. Al posto delle “donne in attesa”, gli alberi in riva al mare piegati dal vento, come le donne lo sono dagli anni e dalla fatica.
Un grande impegno, un grande sforzo di rinnovare una visione pittorica mantenendo intatte le idealità di ispirazione e di messaggio. Gli Olivastri di Torre Mileto, questo il titolo di quei dipinti di notevoli dimensioni, che ci fecero riscoprire un artista maturo capace di grandi prove.
Ma, al di là dell’artista, che noi abbiamo apprezzato e stimato, c’è l’uomo Mario Lupo. Mario è stato un personaggio autenticamente vero e genuino con tutte le persone che sentiva essergli amiche.
La sua umiltà e la sua generosità erano pari alla sua voglia di condividere la vita con gli amici. Ecco perché per tutti noi non ci sarà mai pace. Come non dev’esserci stata pace nel cuore di un suo grande amico: Luigi Lacché che, dopo solo sei mesi, lo ha seguito stroncato dal male.
Molti anni fa, in occasione di una delle tante visite che feci nel suo studio stupendo, Mario mi mostrò con orgoglio la riproduzione di un suo quadro, Il gabbiano nero, apparsa su “L’Intrepido”, il famoso giornalino per ragazzi di parecchi anni fa. Era un articolo che parlava, appunto, del gabbiano nero. Creatura che, per gli uomini di mare, è simbolo di disgrazia.
Mario, invece, me lo descrisse con la tenerezza e l’amore di un uomo buono ma, soprattutto, di chi nella vita ha fatto una scelta di campo: stare dalla parte di chi soffre, di chi è più sfortunato.
Ecco perché, un giorno, come ha avuto modo di confidarmi, senza nemmeno accorgersi, un acquarello apparentemente riuscito male, è stato l’ispirazione che ha dato inizio al ciclo di quadri intitolati Il Cristo di tutti.
Anche questo tema, difficilissimo, è stato affrontato da Mario Lupo con grande rispetto e con grande fede, ma anche con grande realismo. Cristo è per Mario un uomo, ed in quanto uomo, in lui, tutti gli uomini, vedono riflessi il dolore e il sacrificio ma anche la certezza di non aver vissuto invano.
Al di là dell’amico e dell’artista, voglio testimoniare a tutti che Mario Lupo è stato un uomo autenticamene vero e che il suo cuore continua a battere, in sincronia con le onde del mare, dentro ognuno di noi.
POESIE
MATRI TERRA
Guarda sta terra:… rossa!
Guarda sti munti:… rossi!
Guarda sti ciuri:… rossi!
È tuttu sangu miu,
è tuttu sangu miu,
misu ‘nta terra mia.
Guarda sti tronchi alivi,
torti pi lu duluri;
guarda sti rocci nudi
nudi d’in faccia a Diu!
È lu duluri miu,
è lu duluri miu,
misu ‘nta terra mia.
Guarda lu ficudinnia!
È duci sutta ‘a spina
E pari ca campa “lisciu”…
ma sutta, sutta a rina,
cerca ‘na guccia d’acqua!
Comu la vita mia!
(Renzo Barbera)
PAESAGGI
Nell’orizzonte dei temporali si massacravano
i tronchi, l’infanzia sospesa fra i cespugli
si ribellava al sortilegio
demoni e cerbiatti hanno seguitato
a danzare in libertà, solo i legni
si piegavano secondo meridiane impazzite
un progetto di sfida è costato livori
vene aperte amici perduti
tra lo strazio delle radici e le primavere
rosse sui sentieri
il Dio maligno sotto le scorze
s’è agitato, le donne incupite
hanno atteso bufere
era il parlottare primitivo mentre gli usci
s’aprivano alle cantilene
qualche fucilata lontana poi la raffica
m’insegnò il rumore del mondo
ecco anche quello di oggi
sa di polvere lo riconosco.
(Dino Carlesi)
VENTO DI MARZO PAZZO
Vento di marzo pazzo
nel becco dei gabbiani.
Leggerai stupito sui massi
del molo
l’Eternità dell’onda.
L’ombra de la sera che
dai fianchi delle colline
si ferma alle mie mani.
(Lea Ferranti)
QUANDO TU
Quando tu
svanirai
dall’orizzonte
e sarà vuoto il cielo
e senza canti,
riaffiorerà,
nell’ombra della sera
tra i sospiri del mare,
il tuo ricordo.
(Clelio Cassiani)
LA SPERANZA
Sui coppi del Piceno
virando, il colpo d’ala di un rondone
mi spettina i rimpianti e traccia rotte
ferendo tempo e spazio…
… ma lontano
con lievissimi battiti d’ala
i silenzi rammaglia il gabbiano
come dita di donna protese
sulla rete dell’uomo lontano.
(Filippo M. Decorso)
MARINA
Mattino senza voce,
che non ardisci un suono e le canzoni
sono dimenticate.
Oh il tuo sbigottimento,
se nel quieto risveglio ti ritrovi
afono, in compunzione,
tutto parole non articolate.
Chiarezza di tepori.
E le case laggiù le invade il mare,
e solo qualche riga ora ci intrica
gli sguardi ai muri emersi
quasi a pena dall’acqua e dalla luce.
(Emilio Putti)
IL VENTO DELLE QUATTRO
Sono in sala d’attesa
con in mano una foglia ingiallita;
è il biglietto per il vento delle quattro.
Tarda… forse è ancora sulla collina,
tra gli ulivi, ma verrà ed io aspetto.
Aspetto ancora… sono il pendolare più assiduo
della tratta ricordi-realtà.
(Pio Tempera)
LA MORTE DEL GABBIANO
Hai cercato le mie mani
per cucire l’ultimo ordito
di un volo che ha conosciuto il dubbio
dell’esistenza.
Gabbiano ferito dal tempo
vorresti rubare alla mia tristezza
il pianto di ieri
ormai tuffato in un mare
che non è più tuo
e che io ho bestemmiato
in una notte senza luna?
Non è ritornato il mio uomo
a dire ore di fame
e d’attesa.
Ed io, solitario arbusto
che ha sposato la spiaggia e il vento,
chiudo i tuoi occhi
che mi portano l’ultimo grido
di un mondo che non è più mio.
Seppellirò i tuoi voli
nella casa dalle pareti
bianche come l’attesa che non muta
e rimarrò in preghiera
finché il mare non ruberà
anche il mio respiro.
(Fulvio Castellani)
MARE
Anch’io potrò disperdermi nel lento
frantumarsi di giorni or vacui or densi,
o d’improvviso cedere se ingorga
la corrente del tempo e mi precipita
in sepolcrale abisso di memoria.
Dunque non sosterrò che vane cose:
o clamori di gesti senza peso
o riverberi fatui di miraggio.
Ferma è l’ampia struttura. Il paesaggio
mesce nell’occhio avido colori;
avventura dei secoli, equilibrio
del fiat che si conclude e si rinnova.
Pure la terra ignoro che mi tiene
dove l'ulivo è tenero di foglie,
dove se infuria tempesta è ventura
che si riporti l’albatro radendo.
Ma tu che pure al cielo vai cedendo
e sei fiume che naviga acque dense,
e mandi al sole lame di cristallo,
e sembri immoto nel vario tormento:
tu raccogli di me l’intimo accordo
e cuore e mente che più non trattengo.
Come fai quando tra due capi sfuggi
e ti distendi in chiarità spaziale.
(Francesco Lista)
OPACO CIELO SENZA NUBI
Opaco cielo senza nubi,
solitudine della marina distesa.
Presso la barca a secco sull’arena,
donne aggruppate, in attesa.
Vita di sempre, vissuta
nel timore d’ogni sosta muta.
Vanno i pensieri, volano i gabbiani,
tristezze di oggi, e domani,
vuote ore assorte, nello spazio immoto.
Presso la barca, mute
donne senza età, senza volti,
strette da poppa a prua
come acini aspri e dolci
d’uno stesso grappolo d’uva.
(Giulia Liburdi Giovanelli)
NUDITÀ DELL’ACQUA MERIDIONALE
Nudità dell’acqua meridionale
nespoli solitari
bagnasciuga di ansia
salmastre attese
su scalmi reclinati
mari di zolfo
gabbiani fagocitati
ore grige di naufragi
grembiuli neri
cuffie bianche
su moli di rassegnazione
barche come bare di fatica
vele e scaglie di pesci
irriverenti
pane e olive
nudità del reale.
(Antonio Carlo Ponti)
NON SO QUANDO SPUNTERÀ L’ALBA
Non so quando spunterà l’alba
non so quando potrò
camminare per le vie
del tuo paradiso
non so quando i sensi
finiranno di gemere
e il cuore sopporterà la luce.
E la mente (oh, la mente!)
già ubriaca, sarà
finalmente calma
e lucida:
e potrò vederti in volto
senza arrossire.
(David Maria Turoldo)
FRAMMENTI
I quadri che nessuno voleva comprare;
[le critiche negative;
I quadri rifiutati alle mostre;
La Austin 40 S beige. La “Sciasciona” bianca;
Le corse lungo l’Albula e l’anguria;
Le pisciate sul Torrione;
Le incazzature con il corniciaio;
I fagioli all’uccelletta;
Il pecorino e le fave;
La gioia di terminare un quadro e l’aperitivo
[alla Guglielmi;
Il piacere della cortesia e l’amicizia;
Le discussioni sull’arte;
L’onestà della tua pittura;
Il successo;
Il Brusolé, il fragolino e l’acquolina del Lupo;
I limoni, i fiori di cicoria ed il peperoncino;
Le ginestre e le melagrane;
Gi olivastri, i pini e le barche;
I Cristi, le donne e i gabbiani;
Le marine e poi le burrasche:
Molti ricorderanno insieme a me.
(Patrizio Marcelli)
PAESE DI MARE
Fra coltivi gelosi e case austere
odorosi digradano aranceti
fin dove il mare batte l’onda
prossimi a farmi borgo interiore.
Spento il tempo giace e l’ombra
rugginosa erode il cielo
al duro mondo dei clamori.
Profili netti aprono le arcate,
il volto della donna che sorride
all’amato schiude le persiane.
Per varchi d’ombra e rampe di fatica
s’invera la promessa d’infinito:
qui sciogliamo, smemori del giorno,
il pesante fardello nelle schiume
quando ilare la bimba si confida
al dolce canto delle tue fontane.
(Giovanni Santori)